L'arte vale più della vita, salviamola dai burocrati

La creatività dell’uomo èeterna, la sua esistenza no. Ciò che facciamo merita di essere ammirato, non solo messo sotto vetro da qualche ottuso funzionario

L'arte vale più della vita, salviamola dai burocrati

Ma le opere d’arte val­gono più delle perso­ne viventi? È una do­manda che risuona tante volte. Per esempio dopo un terremoto, quando si deve decide­re se dare priorità al restauro di una Chiesa o di una Torre crollate o alle case e ai luoghi di lavoro della gen­te. Sullo sfondo è l’alternativa tra Bellezza e Salute, tra Grandezza e Umanità. Che è poi il versante ari­sto­craticodeldilemmachehafune­stato l’estate italiana con l’Ilva di Ta­ranto, se salvare prima l’industria e il lavoro o l’ambiente e la salute. Un’altra dolorosa,inaccettabile al­ternativa.
Contro la retorica dei beni cultu­rali combatte la sua battaglia solita­ria un giovane studioso toscano, Luca Nannipieri, che dopo aver at­taccatoinunpa­mphletsu La bellez­za ingabbiata dallo Stato le soprin­tendenze
e il loro guru, Salvatore Settis, si cimenta ora in un più trasgressivo opu­scolo, Contro il Patrimo­nio, pubblicato dal Cen­tro studi umanistici del­l’Abbazia di S. Savino di cui è fondatore. La tesi è coraggiosa, oltraggiosa e culturalmente scorretta, almeno in apparenza. Nannipieri denuncia che da quando la bellez­za è stata imbalsamata nei «beni culturali» o nel «patrimonio dello Stato o dell’Umanità» le opere d’arte sono diventate più importanti delle vite umane. Gli uomini han­no perduto il loro destino d’eternità e l’assoluto si è spostato dalle persone al­le cose. Tesi suggestiva, anche se mi pare che in Occidente prevalga invece il primato assoluto dei diritti umani:l’unico assoluto è la vita umana, il resto è relativo. Oso dire che se davvero le opere d’arte valessero più delle persone, sarebbe cosa bella e giusta. Certo, noi che siamo persone, nei limiti della nostra condizione umana, non decreteremo mai la morte di un uomo per salvare un monumen­to o un capolavoro. Siamo umani troppoumaniperpotercipermette­re queste lussuose crudeltà, prefe­riamo le rovine ai cadaveri.
Ma dal punto di vista divino, «là dove tutto è ordine e bellezza», gli uomini passano e invece le opere d’arte,che pure condensano lo spi­rito umano, restano.

Non lo dico immaginando un Dio dandy, un Dio esteta, un Qualcuno che sta tra Nietzsche, Baudelaire e Oscar Wil­de; lo dico nel nome superiore del­la verità e della bellezza, conside­rando il capolavoro come vertice e sunto dell’umanità. Ammetto: non darei mai l’opera di Leopardi in cambio della sua salute e della sua felicità; non baratterei mai il suo canto A Silvia con il corona­mento della sua storia d’amore con la medesima. Preferisco la sua infe­licità, la sua cagionevole salute, la sua solitudine, che furono così fe­conde di opere mirabili. Non è cini­smo, maprimatodellavitaspiritua­le. L’inumano criterio lo applico an­che a me stesso: « prime primum philosophari, deinde vivere ». Nei li­miti del possibile, se devo scegliere tra vivere e scrivere preferisco scri­vere. La priorità dell’opera sull’uo­mo non è affatto un delirio moder­no, semmai l’inverso. Nella roma­nità il « monumentum aere peren­nius » valeva più della trascurabile esistenza.

Se l’esempio pagano è remoto, seguiamo l’esempio cristiano.No­nostante il richiamo alla pietas e al valore inestimabile della vita uma­na professato dal cristianesimo, quante volte fu preferita la grandez­za di una cattedrale, la magnificen­za di una statua o di un affresco al soccorso dei poveri e dei bisogno­si? Anche la chiesa tra gloria e welfa­re spesso ha ceduto alla prima; e co­munque le opere di misericordia, tra ospedali, ospizi, scuole, assi­stenza, si sono perlomeno alterna­te alle opere innalzate alla gloria di Dio, dei Cieli e dei Santi. Perché la bellezza è un’esigenza naturale e soprannaturale e non può essere posposta alla carità e all’amore per le creature. Se così non fosse oggi baratteremmo millenni di tradizio­ni pe­r far vivere senza debiti la gene­razione presente. Meglio un asino vivo che un artista morto...

Nannipieri osserva che la bellez­za non può essere sequestrata dal­la vita, isolata dalla realtà, salva­guardata dagli stessi uomini ma va vissuta, respirata, toccata. Verissi­mo, a patto che la sua magnificen­za­non venga subordinata all’utili­tà sociale. Se è giusto aprire chiese, cripte e monumenti tenuti chiusi per salvaguardarli, non lo sarebbe se servissero come asilo perma­nente dei senzatetto o degli immi­grati.
La bellezza va sì vissuta, ma come tale;non va distorta la sua fi­nalità d’uso per ridurla alle esigen­ze pubbliche immediate. Certo, ha ragione, è brutto il linguaggio tecnico burocratico usato per indi­care opere e consumatori o utenti.
Ma noi«fruitori»non siamo più im­portanti delle opere, altrimenti preferiremmo Erostrato al Tem­pio ad Artemide che lui bruciò, pas­sando lui ai posteri anziché l’opera gloriosa.
Ha ragione Nannipieri quando critica l’idolatria della conservazio­ne, la tendenza a musealizzare tut­to, a fare dei musei i cimiteri della bellezza, nel timore che le opere d’arte siano deturpate. La bellezza va esposta, con tutti i rischi che com­porta, va vissuta a cielo aperto, co­me fu del resto concepita. Vanno li­berate le opere d’arte dalle prigioni museali, comesifaconinanidagiar­dino. Per esempio, proposi vana­mente a Reggio Calabria di portare all’aperto, sul mare, i
Bronzi di Ria­ce e farli diventare simbolo­dell’Ita­lia e della Magna Grecia che comin­ciaaReggio- comela Sirenetta di Co­penaghen o la Statua della Libertà di New York, anziché tenerli seque­strati da anni negli scantinati del museo. Che riacquistino vita nel contatto col mondo, che diventino simboli viventi e non culture morte, sepolte negli obitori dell’arte.

L’uomo vale per l’impronta che lascia. Certo, ogni vita umana va sal­vata e tutelata, ma la vita vale per la traccia che lascia, per ciò che ha edi­ficato, per quel che proietta nel mondo. Ha ragione Ray Bradbury: «Ognuno deve lasciarsi qualche co­sa dietro quando muore... un bim­bo o un libro o un quadro o una ca­sa o un muro eretto con le proprie mani... o un giardino piantato col nostro sudore. Qualcosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia do­ve andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là».L’opera trascende l’uo­mo ma l’uomo s’incarna nell’ope­ra. In quelle opere è condensata la vita di chi la ritrasse, di chi fu ritrat­to, di chi poi l’ammirò.L’anima sin­golare e comunitaria si raccoglie in quell’opera d’arte, d’ingegno o di lavoro.

Onore all’opera,nonostan­te il nomignolo burocratico di Be­ne Culturale.

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