da Verona
Baci, abbracci e qualche lacrima. È finita ieri in una saletta del «Catullo» di Verona Villafranca lodissea del padovano, Claudio Chiodi e del lecchese Ivano De Capitani, i due italiani rilasciati dopo quasi due mesi di prigionia.
«Non ci hanno mai messo le mani addosso - spiega Chiodi -, ma a livello mentale la tensione è stata altissima. Erano circa una trentina di persone che si alternavano a turni di otto-dieci persone per sorvegliarci, non ho mai visto tra di loro una donna, sempre gente giovane e di mezza. Il capo era senza un piede e senza una mano, mozzati anni prima da militari libici».
Qualche chilo in meno sia lui che il compagno di disavventura, i volti abbronzati e tutto sommato distesi, i due sono stati rilasciati nella notte tra giovedì e venerdì. «No, non hanno usato violenza, ma momenti di paura ce ne sono stati - prosegue Chiodi. Alcune volte ci hanno puntato addosso le armi, durante accese discussioni tra di loro, divisi sul da farsi: minacciavano di lasciarci da soli sulle montagne, anche per sei mesi, in attesa di decisioni. Il momento più brutto? È stato quando durante uno spostamento alla ricerca di acqua la macchina che ci seguiva è saltata su una mina, a mezzo metro dalla nostra. Uno è morto, tre sono rimasti feriti. In seguito allincidente abbiamo perso viveri, carburante e soprattutto la riserva dacqua che quella macchina trasportava. Per dieci giorni siamo rimasti senza mangiare e senza bere in un angolo di deserto dove non esisteva un filo dombra e dove di giorno le temperature superavano i cinquanta gradi. Per fortuna sono riuscito a far funzionare un cellulare con il quale i rapitori hanno chiamato la loro gente che è arrivata in soccorso».
Ivano De Capitani ricorda gli ultimi momenti della prigionia. «Alla fine ci trovavamo in mezzo alle montagne del Tibesti al confine tra Ciad e Niger, in una zona totalmente minata difficile da raggiungere.
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