Il lato oscuro dello sbarco in Normandia

Lo sbarco in Normandia è uno degli episodi storici più studiati e raccontati. Quello che è accaduto il 6 giugno del 1944, e nelle settimane seguenti, nel Nord ovest della Francia è uno dei fatti bellici che maggiormente sono entrati nell’immaginario collettivo. Anche grazie a Hollywood che con decine di pellicole, dal Giorno più lungo a Salvate il soldato Ryan, ha costruito un vero e proprio mito attorno all’attacco alla Fortezza Europa. Un mito che glorifica l’unità degli Alleati, l’audacia e la perfezione del piano, il concorso della resistenza francese, il coraggio dei paracadutisti che affrontarono nugoli di fanti e corazzati tedeschi. E dietro a questo mito ci sono delle verità importanti e la volontà di celebrare giustamente le democrazie che hanno liberato l’Europa dai totalitarismi nazi-fascisti.
Per quanto riguarda un’analisi puntuale dei fatti però la creazione di quest’epica eroica ha spesso minato e contaminato il lavoro degli studiosi, anche i più seri. Ecco perché il libro dello storico francese Olivier Wieviorka, Lo sbarco in Normandia (Il Mulino, pagg. 394, euro 32), che è appena arrivato nelle librerie italiane, si rivela essere un testo importante. Non mette in luce grandi verità inedite sul D-day, semplicemente rielabora la gran massa di informazioni disponibili per ottenere un mosaico molto più veritiero dei fatti.
Ad esempio l’analisi degli eventi politici precedenti al D-day mostra con chiarezza la scarsa voglia di Churchill di imbarcarsi nell’impresa e come i britannici ritardassero il più possibile l’apertura di quel secondo fronte così voluto dai russi. Insomma: sulla «questione sbarco» gli Alleati erano alleati ma non troppo. Quanto allo scontro in sé, alla perfetta macchina logistica dello sbarco e alle negligenze della difesa tedesca, Wieviorka è molto attento a sfatare leggende e propaganda. La macchina alleata era sotto molti aspetti lacunosa, aveva dalla sua soprattutto la forza travolgente dei numeri. Non furono tanto le truppe d’élite a mettere in crisi le unità della Wehrmacht e delle Ss, quanto la gigantesca macchina logistica made in Usa capace di catapultare nella mischia migliaia di uomini, per quanto mal addestrati, e di mezzi. Ma il capitolo più interessante è quello che Wieviorka dedica al rapporto tra gli alleati liberatori e i «liberati». Nonostante le idealizzazioni successive e le foto di signorine francesi che sventolano la bandiera americana, non si trattò affatto di un idillio immediato. Moltissimi francesi non furono così contenti di veder le proprie case polverizzate dalle artiglierie anglo-americane, i simpatizzanti filo-nazisti erano una minoranza ma agguerrita, la resistenza era attiva e indispensabile ma guardata con diffidenza per la sua autonomia (soprattutto da Churchill). Peggio ancora, le truppe che vennero schierate dietro la linea del fronte non sempre ebbero un comportamento specchiato: si contarono centinaia di casi di stupro e di rapina.


E guardare in faccia queste realtà non significa sminuire il valore dell’evento, che segnò in maniera definitiva il tramonto del nazismo. Ma piuttosto per usare le parole di Wieviorka: «Lo sbarco deve essere visto come un evento essenzialmente umano, nelle sue grandezze come nelle sue debolezze».

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