Laudati perseguitato da pm e Csm. La colpa? Non ha inchiodato Silvio

Caso Tarantini, il procuratore di Bari indagato a Lecce per abuso d’ufficio favoreggiamento e violenza privata. E rischia pure sanzioni disciplinari

Roma Abuso d’ufficio, favoreggiamento, addirittura tentata violenza privata. Il procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, si ritrova indagato dai colleghi di Lecce per il «caso Tarantini».
Ben tre ipotesi di reato e con questo biglietto da visita giovedì è atteso davanti alla prima commissione del Csm, che potrebbe decidere un suo trasferimento d’ufficio. Per non parlare dell’eventuale azione disciplinare, che è proprio dietro l’angolo.

Che ha fatto Laudati per meritare tutti questi guai? L’accusa è pesante, infangante: quella di aver voluto controllare le indagini su Gianpaolo Tarantini, anche per rallentare la diffusione delle intercettazioni tra il faccendiere e le ragazze portate alle feste del premier. E questo per favorire, più che Tarantini, Silvio Berlusconi.
La grande colpa di Laudati, insomma, sarebbe quella di non aver fatto abbastanza per inchiodare il Cavaliere. Il sospetto nasce da intercettazioni in cui Giampaolo Tarantini e il direttore de L’Avanti Valter Lavitola parlano di presunti accordi degli avvocati con lui. E lo sostiene il suo grande accusatore, l’ex pm Giuseppe Scelsi, oggi alla procura generale barese. La tentata violenza privata sarebbe proprio nei confronti dell’ex titolare dell’inchiesta, che a luglio ha inviato un esposto al Csm, poi ha ripetuto la sua versione dei fatti di fronte ai colleghi leccesi e napoletani e lunedì a Palazzo de’ Marescialli. Così, da inquisitore di Tarantini (lo ha fatto anche arrestare) Laudati diventa indagato.

Passa in ombra, in questi giorni, la pubblica autodifesa in cui il procuratore capo racconta della situazione trovata in Procura al suo arrivo a settembre 2009, con i sostituti che a suo dire lavoravano a ruota libera, senza coordinamento e, soprattutto, con le continue e clamorose fughe di notizie sui giornali. Quello che Laudati descrive come un necessario mettere ordine nell’ufficio, imporre regole ferree ai pm, maggiore controllo sulla Guardia di finanza per i compiti di polizia giudiziaria e assoluto riserbo verso i mass media, per Scelsi è imposizione verticistica, interferenza sospetta, come quella di avocare a sé, di fatto, la delicata inchiesta sulle escort.

Sembra che il primo titolare delle indagini si sia sentito sotto accusa per il sospetto che proprio dal suo computer siano fuggite le prime notizie a luci rosse sull’escort Patrizia D’Addario e le altre, pubblicate dal Corriere della Sera proprio il giorno dell’insediamento di Laudati. Il rapporto tra i due (il primo vicino alla corrente di Magistratura indipendente, l’altro militante in Magistratura democratica) comincia male e prosegue peggio. Al pm vengono affiancati due colleghi per l’inchiesta scottante, lo stress sale, gli attriti con il capo pure e Scelsi chiede il trasferimento alla Procura generale.

Ma prima vuole a tutti i costi l’informativa finale delle Fiamme gialle. La sollecita. A tre giorni dalla sua uscita, salta l’ultima riunione per le ferie dei colleghi e non ci riesce. Scelsi lascia con l’amaro in bocca, si sente defraudato e, forse anche per pararsi da eventuali attacchi, scrive al Csm.

Lunedì, alla prima commissione presieduta dal laico Nicolò Zanon, ripete la sua versione calcando la mano. Accusa Laudati di aver imposto alla Guardia di finanza di consegnare solo a lui la famosa informativa. Lo stabilisce una direttiva del Capo del dicembre 2009, ma lui la contesta.

Contesta addirittura l’opportunità della riunione di coordinamento delle indagini indetta da Laudati, parla di ritardi voluti, di intromissione verticistica nelle inchieste, di suggerimenti a Tarantini, di uso personalistico delle Fiamme Gialle da parte del procuratore, con un «pool» che rispondeva solo a lui. Addirittura, di un’«indagine parallela» alla sua. E Laudati viene crocifisso.

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