Lauzi e la sua vita. Scritta da Bruno

Lauzi e la sua vita. Scritta da Bruno

Maria Vittoria Cascino

Non l'aveva voluta scrivere mai. Bastavano i suoi testi a ricomporla in versi. Il tutto compresso e schizzato ovunque. Bruno Lauzi ci ha messo sessant'anni ad incrociare la penna con le storie della sua vita. Poi se n'è sceso. Ti ha gettato in un libro a manciate i frammenti, ha cercato di infilarci qualche data, lo ha confezionato «alla maniera di». Macché. «Tanto domani mi sveglio» autobiografia in controcanto,( Gammarò Editori, 134 pagine, 14 euro) in copertina blu notte canta alla luna l'ultima follia. Ieri a Palazzo Tursi la presentazione alla sua Genova. Mauro Ferrarini, amico di famiglia e collaboratore di Bruno, legge le righe scritte dalla moglie Giovanna: «Pensavo di poterci esserci, ma ho sopravvalutato le mie forze. Bruno ha scritto con fatica. Con rimpianto. Ha scritto il libro perché non chiedessero ad altri la sua vita». Si respira sogno. L'assessore Luca Borzani lo cerca nelle pagine sulle Foce, nel Lauzi della discriminazione politica e della voce libera. Francesco De Nicola, curatore del testo, lo racconta nella fatica degli ultimi mesi. L'amico Arnaldo Bagnasco lo ritrova in anticipo sempre. Ma Lauzi ti avverte: «Questo mio zigzagare nel tempo tra gli avvenimenti ha la logica che deve seguire un libro affrontabile da ogni lato». Il privato resta fuori. Sulla carta solo quanto arriva dritto a testa e cuore. Genova è la quinta mobile cui tenersi stretto. La Piazzetta, «così chiamavamo via Cecchi nella metà col cinema Aurora». Lui, Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi. E ancora Giorgio Calabrese e i fratelli Riverberi che tengono il filo. Sulla spiaggia della Foce con Luigi al tramonto a invidiare le navi che sparivano dietro l'orizzonte. E l'America. Che era Gershwin, Ginger Rogers e Fred Astaire. Lauzi col banjo e Luigi col clarino. I «testimoni di Genova», che non furono una scuola di cantautori: «Non esiste, non è mai esistita». E Luigi che è la costante. Prima e dopo. «Non andai al funerale. Ma uno non va a veder seppellire le proprie budella». Apnea. Altre corde che diventano dialogo stretto. Rimprovero.
Lauzi ci sguazza a raccontarsi un passo indietro. Quasi rallentasse per guardare con l'altro occhio. Quello che chiedeva la distanza per ironizzare meglio. Una vita sbalzata sempre. L'incontro con i brasiliani Vinicius de Moraes e Toquinho. «O frigideiro» che sconvolge e resta eterno nel suo genovese-samba. Lauzi che traduce i francesi e calza i testi sugli interpreti. I rimandi sono da biblioteca della musica. Quasi ricordasse e raccontasse a Luigi che non ha aspettato la fine del film. Poi le sciabolate ai colleghi omologati al sistema. Ritratti inediti di Vanoni, Battisti, Fossati, Conte. I pezzi dell'anima che non è riuscito ad arrangiare sulla chitarra.

Resta Genova di tre quarti e un premio Tenco che riceverà quarant'anni dopo la morte di Luigi. Troppo tardi. Restano le parole pronunciate prima di chiudere il libro: «Cosa bisogna fare per attirare un po' d'attenzione? Niente meno che morire».

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