Il lavoro è dovere e onore. Anche se porta alla morte

Infarti, ictus e 15mila suicidi all'anno per i troppi straordinari, con turni di 80 ore alla settimana

Il lavoro è dovere e onore. Anche se porta alla morte

(Tokyo) Appaiono nella stazione dei treni di Shibuya e nei centri commerciali di Chuo. Abbandonati a se stessi nel loro abito scuro da ufficio con camicia bianca e cravatta nera, gettati per terra come fossero stracci bagnati, deformati da un'immensa stanchezza che li divora, aggrappati alla loro ventiquattr'ore-salvagente.

Non sono ubriaconi, drogati o mariti che hanno litigato con le mogli. Sono semplicemente impiegati di un sistema produttivo che li sta stritolando, nell'indifferenza collettiva, con 70, 80 e anche 90 ore di lavoro. Fanno molto tardi la sera, quando spengono il computer, dopo tre ore di straordinario, corrono giù in strada con le ultime forze per saltare sull'ultimo treno per casa. E non tutti ci riescono. Alcuni si addormentano sul vagone della metropolitana, saltando la propria fermata, distrutti da una stanchezza che li fa girare per ore nel ventre di Tokyo. Fino a quando qualcuno li sveglia. Ed è troppo tardi per tornare a casa. Ed anche troppo costoso in taxi, l'abbonamento non copre le rotte notturne, carissime, e poi dopo una certa ora, a parte la metro, tutto si ferma e non rimane che arrangiarsi, dormendo su una panchina della stazione, in un gradino, in un anfratto sotterraneo. Tokyo è una città molto sicura, piena di telecamere e polizia. A nessun malintenzionato verrebbe in mente di derubare uno di questi sciagurati addormentati.

Ogni giorno a Tokyo entrano quattro milioni di pendolari in treno. Abitano per lo più a nord, a Kawagoe, Saitama e Hosuko, distanti non meno di cento chilometri dall'ufficio. Se, di sera, perdono l'ultimo treno perché sono ancora al lavoro, dormono in metro o dove trovano e poi tornano in ufficio. Gli hotel senza prenotazione sono carissimi.

In Giappone è piuttosto normale imbattersi in impiegati, per lo più uomini, che dormono per strada, sdraiati sulle panchine delle fermate dei bus, a lato del marciapiede sui gradini della loro stessa azienda. Niente di nuovo. I giorni migliori per incontrare questi zombie in doppiopetto, schiavi delle multinazionali che li spremono all'inverosimile, è il giovedì e il sabato mattina. Sono «signori nessuno», come impone la cultura dell'anonimato giapponese. Non eccellere per educazione, dedicarsi totalmente alla propria azienda, confondersi nella media, l'apparire soltanto per avere lavorato più degli altri, per poi tornare a essere nessuno. I giornalisti non firmano i loro articoli, forse anche perché ne scrivono una trentina ogni giorno. Un dipendente può distruggersi di lavoro e venire licenziato il giorno dopo, per un piccolo errore. A fine orario, almeno due giorni a settimana, va a bere al pub con il capo e i colleghi. È praticamente costretto. È l'unico contatto coi colleghi, perché il giorno dopo in ufficio si è di nuovo distanti ed estranei.

Per un giapponese questa è la normalità. Sono scene del quotidiano. Succede. È così. Non esiste nessun progetto o legge del Governo per levare questi zombie dalla strada, soltanto una Ong americana che tenta di sensibilizzare i giapponesi con le foto. C'è chi sostiene che la colpa di questa tragicomica dedizione al lavoro sia di Shigeru Yoshida, primo ministro del Giappone. Fu lui che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, incoraggiava le aziende a imporre turni da 60 ore. Il Paese era economicamente a pezzi, doveva recuperare i soldi persi nella guerra. Bisognava sacrificarsi, tenere premuto l'acceleratore, per non rimanere ultimi. Negli anni Cinquanta chi eccelleva negli straordinari, aveva un premio ogni mese, nei Settanta ogni anno. Poi, niente.

Le conseguenze di un eccesso di lavoro sulla salute fisica e mentale sono devastanti. Il numero d'infarti e suicidi è altissimo. Molti giapponesi hanno un rapporto distruttivo con il lavoro, si condannano a una morte prematura. Questo fenomeno sociale è detto karoshi. Qui non c'entra lo sfruttamento lavorativo o un incidente sul lavoro: il termine indica esattamente le morti dei lavoratori di grandi aziende per ictus, infarto o suicidio dopo aver lavorato oltre i limiti.

Il fenomeno del karoshi è patologia dalla fine degli anni Sessanta: primo caso, la morte per ictus di un ventenne addetto alle spedizioni di un quotidiano, una morte insolita per l'età. Si scoprì che lavorava 15 ore al giorno. Dunque, di lavoro eccessivo si moriva, ma nessuno ne fu sorpreso. Ora, al solo sospetto di un karoshi, l'azienda apre generosamente il portafoglio e mette tutto a tacere.

Poi c'è il mito del posto fisso a vita. Non è più così da anni. I licenziamenti sono molto frequenti e un terzo della forza lavoro giapponese è fatto di lavoratori interinali che rimangono occasionali anche dopo dieci anni, anche a 80 ore a settimana di lavoro. C'è chi lavora per nove ore in azienda, poi va al ristorante o a casa e continua col portatile per altre 3-4 ore. Il precariato appartiene anche al Giappone. Esiste anche una terribile tradizione di accettare straordinari non pagati. Poi, lasciare l'ufficio prima di una persona più anziana è una vergogna. E il Giappone invecchia perché si è sempre in ufficio, non si coltivano rapporti sociali, non ci si sposa, non si fanno figli. Ma, in compenso, aumentano i suicidi: quasi 45mila nel 2018, un terzo di questi legati al karoshi, 56 ogni 100mila abitanti.

In Giappone gli straordinari uccidono.

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