Roma - Un pugno al cuore e uno allo stomaco. Li tira Lebanon, film dell’israeliano Samuel Maoz (Leone d’oro alla Mostra di Venezia, in uscita il 23), che da dentro all’angusta torretta d’un carro armato racconta la Guerra del Libano, durante la quale il regista, da militare ventenne, ammazzò un uomo per la prima volta. E quella traumatica esperienza personale vissuta nel 1982 diventa una lezione di vita universale: meglio non scatenare l’inferno, perché, poi, non si torna indietro. Dopo Valzer con Bashir dell’israeliano Ari Folman, è la seconda volta che il conflitto libanese («una guerra caotica come poche, che fece uscire di testa parecchie persone», secondo Maoz) tiene banco sul grande schermo, emergendo, tra l’altro, nel momento storico in cui Israele s’interroga sulla liceità delle proprie rappresaglie. Perché qua è di bombe al fosforo che si parla, quel «fuoco ardente» usato a sproposito sui civili e del quale è colmo «Rinoceronte», il panzer solitario in perlustrazione d’una cittadina ostile già bombardata dall’Aviazione militare israeliana. «L’uomo è d’acciaio. Il carro armato solo ferraglia» è la scritta sulla fiancata del tank. Però dentro a sudare e a vomitare, a fottersi di paura e a piangere, ci sono l’artigliere Shmuel, il capocarro Assi, l’aiuto Herzl e il pilota Yigal: quattro poveri cristi, che smarriscono la rotta finendo in Siria, né hanno il coraggio di far fuoco su poveri vecchi e donne inermi.
E in quel manipolo di antieroi c’è chi chiede di avvertire la mamma, che lui, figlio unico, sta bene; chi ricorda la prima erezione, alla morte del padre; chi spara, a casaccio, su un vecchio, che invoca «Shalom», pace, mentre le sue galline starnazzano tra polvere e sangue.
«Il pubblico israeliano ha dei problemi a vedere soldati che piangono, come nel mio film. Che s’intitola Lebanon non per indicare il Paese, ma la generazione mia, quella dei tanti ragazzi normali che conducevano una vita normale in Israele, ma che dopo la guerra in Libano hanno perso il senno. Infatti, voglio rivolgermi al cuore dello spettatore, perché solo così si ottengono i cambiamenti. Basta col nascondere i problemi sotto al tappeto!», vibra Samuel Maoz, che ha usato il cinema come terapia. «Avevo gli incubi, stavo male. Perché, dentro di me, sarò sempre responsabile d’aver tirato il grilletto, uccidendo un uomo. Mi ci sono trovato, a fare il carnefice e cerco di vivere questa responsabilità», spiega il regista, nato a Tel Aviv nel 1962.
«Quando tornai a casa dalla guerra, mia madre mi abbracciò piangendo, senza rendersi conto che non ero tornato a casa sano e salvo. Anzi. Non sospettava che suo figlio fosse morto in Libano e che stava abbracciando un guscio vuoto», ricorda Samuel, nel 1982 addestrato come artigliere. «Ma non colsi il significato dell’incarico. Sparavamo a barili pieni di benzina, che esplodevano come giganteschi fuochi d’artificio. La gente pensava che fosse figo», è l’amaro commento.
Naturalmente tutti odiamo la guerra, ma dopo i 93 minuti di Lebanon passati a guardare il mondo esterno dal mirino del carrista (gli occhi liquidi e miti d’un mulo moribondo; lo sguardo d’una madre che ha perso il figlio, un ragazzino siriano spaventato a morte e campi di banane e girasoli), si vorrebbe la fine immediata d’ogni conflitto. «Nella Guerra del Libano, a differenza della Guerra del Kippur, non esistevano regole, né uniformi, né tantomeno un obiettivo o un territorio da combattere: nessuna differenza tra civili e militari.
Per questo, molti sono impazziti», afferma Maoz, che spera di poter girare, con i fondi dell’Ente Cinema Israeliano, «un film leggero, perché io non sono solo duro e depresso». L’interno del carro armato è stato ricostruito in un teatro di posa, ma lo spettatore soffoca come fosse vero.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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