L’ultima decisione del ministro Roberto Maroni, che con una semplice circolare ha cancellato gli «autovelox selvaggi» proprio nell’imminenza di un week-end infuocato per quanti si troveranno sulle strade, sembra completare quell’offensiva propagandistica agostana che ha visto la Lega imporre all’attenzione generale una serie di temi. E al di là del giudizio che si può esprimere sulle singole questioni, è doveroso riconoscere ancora una volta la straordinaria abilità con cui il movimento di Bossi sa intercettare domande fortemente radicate nella società: e specialmente al Nord.
In fondo, non c’è nulla di sorprendente nel fatto che un fenomeno politico come la Lega, che si è imposta grazie alla sua capacità di sdoganare il legittimo egoismo delle regioni settentrionali, oggi ponga un freno all’utilizzo parafiscale delle multe. Se l’antico slogan «Basta tasse, basta Roma» non è riuscito a fare della Lega un movimento di autentica resistenza di fronte all’oppressione tributaria, almeno oggi abbiamo un ministro che si mette di traverso dinanzi alla voracità di taluni Comuni. Non è molto, ma è sempre meglio che niente.
Più di un’iniziativa leghista, a ben guardare, appare ispirata da una sorta di liberismo istintivo e popolare, dato che le ronde antepongono la sicurezza effettiva della gente al mito dello Stato moderno quale unico protettore, la riproposta dei dialetti punta a disgregare l’idea di una koiné nazionale imposta, la polemica con il presidente Napolitano per i 150 anni dall’Unità rielabora in senso anti-giacobino l’intera storia del Paese. La stessa idea di dare la terra demaniale ai giovani ripropone, in qualche modo, il tema delle privatizzazioni.
Nulla di strano: quando vent’anni fa si è imposta all’attenzione generale la Lega ha esibito un programma, al tempo stesso, federalista e liberista. Poi molte cose sono cambiate, poiché l’avvento di Silvio Berlusconi ha marginalizzato il movimento di Bossi, che ha smesso di parlare alla maggioranza degli elettori del Nord per concentrare le proprie attenzioni su più specifici orticelli elettorali: facendosi variamente protezionista con i piccoli imprenditori, securitario con l’elettorato delle periferie operaie, perfino «nazionalista» e difensore del made in Italy con gli agricoltori.
Oggi, però, lo scenario potrebbe mutare di nuovo. Tutta l’offensiva di queste settimane esprime una strategia volta a conquistare, tra pochi mesi, qualche regione settentrionale: con le attenzioni concentrate su Lombardia e Veneto. Può darsi che Bossi possa ottenere questo risultato grazie a un’intesa con il Pdl, ma non è detto che un accordo sia facile da raggiungere. Per tale motivo nessuno è ora in grado di escludere l’eventualità di uno scontro - come già all’inizio degli anni Novanta - tra la Lega e tutti gli altri.
È evidente, però, che una Lega al 5% che metta assieme qualche voto tradizionalista e un po’ di agricoltori sovvenzionati non può ambire alla conquista del Pirellone.
Ma lo scenario cambierebbe radicalmente se la Lega tornasse ad esibire l’antistatalismo delle origini e ricominciasse a parlare al cuore e alla testa di chi continua ad attendere quella svolta liberale, soprattutto in economia, che molti hanno promesso e nessuno ha mai saputo tradurre in realtà. I fuochi d’artificio estivi mostrano, una volta di più, come la Lega sappia cogliere umori e attese. Finora ha spesso sprecato tale suo fiuto nella rincorsa di facili consensi settoriali: non soltanto concentrandosi su temi spesso populisti, ma soprattutto suggerendo soluzioni clientelari, assistenziali, perfino centraliste.
Le nuove ambizioni di Bossi potrebbero però far tornare in auge vecchi temi, perché è chiaro che la forza attrattiva di una Lega che tornasse a tuonare contro le imposte e i vincolismi sarebbe ben superiore a quella del movimento che, negli ultimi anni, ha più volte riverniciato di verde le ben note politiche democristiane.
Gli avversari della Lega, ma soprattutto i suoi alleati, rischiano di andare incontro a cocenti delusioni.
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