Il legale al servizio di Sua Maestà 007 «Fare l’agente segreto? Perché no...»

«Il mio nome è Ferrario, Pietro Carlo Ferrario. Mi descrivono come il bondologo italiano, niente a che vedere con l’onorevole Sandro Bondi. Insomma, il massimo esperto di romanzi e film aventi per protagonista James Bond. Sono nato nel 1974 a Pavia. Padre pediatra, madre docente di chimica al liceo scientifico. Dicono che sono la reincarnazione, per somiglianza fisica, del mio trisnonno garibaldino, Pietro Carlo anche lui. Siamo figli unici da quattro generazioni e tutti con lo stesso nome di battesimo. La mia fidanzata si chiama Adelaide. Salentina doc, laureanda, fisicamente una perfetta Bond girl. Ha 11 anni meno di me ed è molto gelosa».
«Faccio l’avvocato a Modena. Ho studi legali anche a Carpi e a Bastiglia. È qui, a Bastiglia, che questo ficcanaso di giornalista – quanto di più lontano dall’agente 007 – è venuto a cercarmi. S’è stupito perché tenevo allineate sulla scrivania quattro penne che non aveva mai visto prima. Stava per toccarle. Ho dovuto trattenerlo dal farlo: fossi in lei, non ci giocherei, l’ho dissuaso. Mica sono semplici strumenti di scrittura. Una serve a misurare l’alcolemia: assai utile per non farsi ritirare la patente dopo il terzo drink. Un’altra contiene il mio timbro di avvocato. Un’altra dispensa post-it fluorescenti. Penne bondiane. Ma lui che può saperne?».
«È qui perché ha saputo che i produttori mi hanno invitato sul set di Casino Royale, l’ultimo film della serie. Non l’ha neppure visto. Imperdonabile. Perciò non sa che compaio nella scena girata sul lago di Como, nella Villa Balbianello trasformata in clinica: l’agente 007 ci viene ricoverato dopo essere stato frustato con una gomena nelle parti intime dal cattivo Le Chiffre. Una scena cruenta, lo ammetto. Infatti nel testo originale il nemico di Bond usava un più umano battipanni».
«Con Luca Bonacini, titolare del Caffè dell’Orologio di Modena, ho fondato l’associazione Shaken, not stirred. È la raccomandazione abituale di James Bond quando ordina un cocktail Martini: “Shakerato, non rimescolato”. Decidiamo noi due, Bonacini e io, a chi dare il diritto di fregiarsi dell’insegna Bond point. Senza fini di lucro. Devono essere bar e hotel d’eccellenza che nella letteratura oppure al cinema abbiano fatto da sfondo alle avventure di 007 o nei quali sia possibile assaporare le bevande e i cibi preferiti dal celebre agente segreto al servizio di Sua Maestà britannica. Ne abbiamo già individuati 30 in Italia, dal Villa d’Este di Cernobbio al De Russie di Roma, e 30 all’estero».
«Il giornalista s’è molto meravigliato perché indossavo, nonostante il caldo, un vestito nero di buon taglio, gilet, camicia bianca in cotone operato con polsini, gemelli coordinati col cinturino di caucciù dell’Omega Seamaster Planet Ocean prodotto in tiratura limitata – 5.007 esemplari, ovvio – che Daniel Craig sfoggia in Casino Royale. Figurarsi quando poi gli ho mostrato la valigetta d’acciaio con duplice combinazione a tre cifre, recante il logo di 007, che porto abitualmente con me. Ha preteso che la aprissi. Davvero impudente. Così ha scoperto il mio segreto: ci custodisco i Dvd di tutti i 21 film della saga bondiana».
«Ma avreste dovuto vedere il suo sconcerto quando gli ho spiegato che al mattino il mio breakfast contempla la confettura di fragoline Little scarlet di Wilkin & Sons. Sono un tipo coerente: “Il pasto prediletto da 007, quando si trova nel suo appartamento londinese situato nel piazzale alberato oltre la King’s Road, è la prima colazione: caffè fortissimo della qualità venduta da De Bry nella New Oxford Street, senza latte né zucchero, preparato con una Chemex americana; un uovo sodo maculato di gallinelle francesi Marans – quelle di certi amici di May, la governante scozzese di Bond – bollito per non più di 3 minuti e 20 secondi e accompagnato dalla confettura Little Scarlet spalmata su due grandi fette di pane integrale tostato”. Dalla Russia con amore, capitolo 11. Era il romanzo preferito del presidente John Kennedy».
«Che ignoranti, questi giornalisti! Non sapeva nemmeno che cosa fosse il Chemex coffeemaker, l’alambicco di vetro inventato da un tedesco nel 1941 che serve agli americani per prepararsi il caffè. È rimasto sbigottito nell’apprendere che sono riuscito a procurarmi 16 uova di galline razza Marans e che da queste sono nati due pulcini, maschio e femmina, allevati con amore per me dalla signora Elvira in una fattoria di San Possidonio. Gli ho dovuto mostrare la foto delle uova, le più scure che esistano in natura, molto proteiche, poco grasse. Appena avrò un po’ di galline Marans, torni a trovarmi che ci facciamo una bella frittata alla 007, gli ho detto. Non mi sembra che abbia colto, perché di Ian Fleming non ha mai letto niente, e quindi neppure Scrambled eggs for four individualists, il racconto in cui James Bond accompagna le uova strapazzate per quattro individualisti con lo champagne, Taittinger rosé per la precisione».
Non sarà degna del romanziere inglese, ma che volete farci? Ferrario, Pietro Carlo Ferrario, mi ha ispirato questa introduzione. Perdonatemi.
Come s’è preso il virus?
«Avevo 4 anni e mio padre mi portò al cinema Principe di Modena a vedere La spia che mi amava con Roger Moore. A me piacque, papà ne fu disgustato: lui era rimasto fermo ad Agente 007, dalla Russia con amore con Sean Connery, del 1963. Risultato: più tornati al cinema. Per cui il vero imprinting lo ebbi solo a 9 anni con Mai dire mai, ovvero Connery e il fascino della maturità. Da lì sarebbe nato il capitolo mio e di Bonacini nel libro Mai dire mai a un Martini Dry».
Sui gusti di 007 lei ha anche scritto un saggio in Mondo Bond 2007.
«Ho la passione dell’enogastronomia applicata all’agente segreto. Con Bonacini abbiamo pure compilato il libretto Bond’s drinks. La copertina riproduce il gessato preferito di Fleming: riga blu scuro su tessuto blu notte».
Martini, champagne, brut, gin, cognac, vodka: nei 21 film in cui compare impersonato da Sean Connery, George Lazenby, Roger Moore, Timothy Dalton, Pierce Brosnan e Daniel Craig, Bond sorseggia oltre 100 drink. Nei romanzi di Fleming ne beve più di 200. Praticamente un alcolizzato.
«Sì. Non si capisce come il suo fegato ancora resista a distanza di quasi 60 anni dalla nascita».
Non crede che sia deleterio, con tutti i giovani che qui in Emilia Romagna il sabato sera vanno a sbattere?
«Sicuramente non è un modello da imitare. Però gli hanno già tolto il fumo, 12 anni fa, in ossequio al politically correct. Craig se ne lamentava sul set, avrebbe voluto concedersi le 70 sigarette al giorno del testo originale di Fleming. Regista e sceneggiatore gliel’hanno impedito perché sarebbe stato diseducativo. “E allora com’è che mi fate uccidere due persone a sangue freddo e un’altra decina in combattimento?”, ha obiettato l’attore».
Non aveva torto.
«È la contraddizione di Fleming, morto nel 1964, a soli 56 anni, per un infarto provocato dagli eccessi di alcol e tabacco. Un uomo sfortunato. Non fece in tempo a vedere Missione Goldfinger sullo schermo, quindi non poté rendersi conto di che cosa sarebbe stato il fenomeno Bond. Del successo di 007 fu vittima l’unico figlio, Casper, stroncato da un’overdose nel 1975. John Pearson, un giornalista del Sunday Times che lavorò a lungo con Fleming fino a diventarne il biografo ufficiale, è venuto a cena a casa mia e mi ha confidato che il romanziere cercò almeno due o tre volte di far fuori l’ingombrante personaggio che aveva inventato. Del resto anche Conan Doyle non ne poteva più di Sherlock Holmes e avrebbe voluto farlo morire».
L’esatta ricetta del Martini Dry di 007 qual è?
«Semplice: 8/10 di Gordon’s Gin e 2/10 di Martini Dry».
Fa così schifo se è mescolato anziché shakerato?
«Per i puristi non va. Per Fleming “shaken, not stirred” risulta più digeribile e meno dannoso per il fegato, perché shakerandolo si spezzano gli aldeidi».
Vabbè, tanto adesso ho letto sul Guardian che 007 beve birra: la Heineken ha sponsorizzato Casino Royale. Sacrilegio.
«Smentisco. Si tratta solo di un product placement, un contratto di derivazione anglosassone che regola la pubblicità indiretta di un prodotto all’interno di un contesto narrativo».
Ma quanta roba ha scritto Fleming?
«Non molto, invero: 12 romanzi e 9 novelle. Il primo arrivò in Italia nel giugno del 1958. L’impronta del drago, titolo originale Doctor No, edito nella collana I romanzi del Corriere. Cento lire, 224 pagine. In quarta di copertina c’era la pubblicità del gelato Eskibon Alemagna, in seconda quella del cachet supposta Dottor Knapp. Poi ci sono stati gli emuli. Il solo John Gardner, pastore anglicano, ex prestigiatore e giornalista morto ottantenne lo scorso 16 agosto, ha scritto 14 romanzi. Inutile dire che posseggo tutte le edizioni di 007 pubblicate fino a oggi in Italia».
Ho letto che alcune scene del prossimo film saranno ambientate sul lago di Garda.
«Non è confermato. Le location bondiane nel nostro Paese vengono scelte da Guido Cerasuolo, produttore esecutivo di una società veneziana che si chiama Mestiere Cinema. Per il momento si sa solo che gireranno a Siena e ai Sassi di Matera, ancora con Daniel Craig protagonista».
Non le pare che 007 sia morto quando Sean Connery ha smesso d’interpretarlo?
«Eh, ci ha lasciato tutti un po’ vedovi».
Questo Craig ha la faccia da Putin.
«Però a vederlo recitare è convincente».
A Villa Balbianello com’è andata?
«Giancarlo Giannini cercava di far ridere Craig, sempre serioso. Il catering per la troupe arrivava da Praga, forse per risparmiare. Un giorno ci hanno dato da mangiare sandwich farciti con una strana crema nera: dopo averne addentato uno, Giannini l’ha sputato in una fioriera. Sul set ho conosciuto Barbara Broccoli e Michael Wilson, figlia e figliastro del compianto Albert Broccoli, detto Cubby, l’italo-americano che ha fondato la casa di produzione di tutti gli 007».
Perché il mito di Bond resiste?
«Perché rimane al passo con i tempi. Un abitante su tre del pianeta ha visto almeno un film di 007. Era già un fenomeno agli albori. Il caso Bond, edito da Bompiani, è del 1965 e se ne occupavano Umberto Eco, Oreste Del Buono, Andrea Barbato, Furio Colombo, non so se mi spiego».
Sì, ma non spiega il successo.
«Donne, paesaggi esotici, lusso, auto sportive, gadget tecnologici, tutto quanto è desiderabile dai maschietti. Non a caso Federico Fellini adorava Goldfinger: una donna dipinta d’oro incarna le passioni dell’uomo. Anche se la povera golden girl Shirley Eaton rischiò di morire per soffocamento epidermico, girando quella scena».
Bond tratta le donne come giocattoli sessuali.
«È vero. Ma nei romanzi viene spesso tradito e lasciato. Il che spiega la sua misoginia».
Pare che abbia fatto sesso più di 200 volte, tra cui 160 in albergo, 9 in treno e un numero imprecisato in piscina o in spiaggia. Non l’ha ancora fatto in taxi, ma nel nuovo film la grave lacuna verrà colmata.
«Dimentica lo spazio: in Gravità zero lo fa a bordo di uno shuttle».
E se col tempo diventasse bisessuale come Pecoraro Scanio?
«Non sia mai».
Non prende precauzioni: prima o poi si beccherà l’Aids.
«In effetti per questa sua leggerezza si ritrova con un figlio naturale giapponese di cui ignorava l’esistenza. Da galantuomo lo riconosce, ma i prosecutori dell’opera di Fleming lo fanno morire. Anche Bond, peraltro, è orfano di entrambi i genitori e pure vedovo».
Che rapporto ha 007 con gli status symbol?
«Simbiotico».
Gli smoking da chi se li fa tagliare?
«Brosnan e Craig da Brioni, in Italia. Invece Connery andava da un sarto in Savile Row, la zona di Londra dove nel ’700 nacquero i club dei gentiluomini. Ci comprava le cravatte Antonio Caprarica, il corrispondente della Rai».
Scarpe?
«Ultimamente le Church. In Casino Royale calza le John Lobb. Nei romanzi di Fleming ha la fissa dei mocassini. In molte occasioni solo i sandali. Non ha tempo da perdere con i lacci».
Non le sembrano puerili certe trovate dei film di Bond, come quella dell’animalesco Richard Kiel, lo Squalo, che in Moonraker trancia con i suoi denti d’acciaio i cavi della funivia del Pan di Zucchero?
«Una trovata adatta al cinema dell’epoca. Stiamo parlando di un film del 1977».
È un superuomo, Bond?
«Lo è stato. Forse oggi lo è meno».
Ha i tic degli scapoli, sembra Woody Allen.
«Certo. Piace agli scapoli e a quelli che vorrebbero ritornare tali».
Lei s’è fidanzato. Perché non vuol restare signorino?
«Per amore. In due si raggiunge il massimo livello di complicità. È l’unico modo per superare l’individualismo. Non voglio finire come Bond che a pagina 67 di Casino Royale si definisce una vecchia zitella».
Pensa che i servizi segreti siano utili?
«Sì».
Da noi sembra che li abbiano inventati solo per consentire ai vari governi di cambiargli sigla ogni cinque anni.
«Un James Bond italiano è difficile da immaginare».
Come giudica l’agente segreto Pio Pompa?
«Non molto affidabile».
Da uomo di legge, mi dica: i servizi devono poter usare qualsiasi mezzo pur di garantire la sicurezza nazionale, oppure no?
«Bisogna lasciargli fare quel quid pluris che non è consentito ad altre forze dello Stato».


Lei si darebbe allo spionaggio?
«Perché no? Secondo me sulla piazza di Modena ci sono già degli avvocati che lo fanno».
Che dicono a palazzo di giustizia della sua passione?
«Conosco almeno un paio di bondiani persino fra i magistrati».
(392. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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