La legge gli vieta di fare il padre poi lo condanna perché non lo fa

La legge gli vieta di fare il padre poi lo condanna perché non lo fa

Quel ragazzo non è suo figlio. Anzi, sì. Per il magistrato e quindi per la legge non è suo figlio, non lo può e non lo deve incontrare. Ma per lo stesso tribunale è suo figlio, perché lo deve mantenere. Sembra complicata la storia di Sergio S., padre separato all’eterna ricerca di una risposta univoca dalla giustizia. In realtà è una delle tante storie che nascono da una separazione e che finiscono in dramma. Un dramma per il figlio minore, innanzitutto, ma anche per il genitore che si scontra con la legge. La vicenda è resa ancor più incredibile dal fatto che il ragazzo, sedici anni da poco compiuti, è rimasto anche orfano di madre, ma l’ultima persona con la quale sembra poter vivere è il padre, che però viene inseguito dalle sentenze e dalle minacce di confisca, perché è tenuto a essere presente solo al momento di staccare gli assegni.
La situazione del ragazzo inizia male, perché fin dalla sua nascita il rapporto tra i genitori è compromesso. Il suo riconoscimento avviene già a suon di carte bollate, con le quali il padre addirittura «concede» alla madre (che avrebbe problemi non ancora risolti per un precedente matrimonio, tanto da essere inizialmente citata sull’atto di nascita come «persona da non nominare») la possibilità di registrare il bimbo all’anagrafe, che altrimenti sarebbe stato probabilmente considerato adottabile. Un gesto d’amore che non viene ripagato. La coppia litiga, si separa, finisce in tribunale, il bambino viene affidato alla madre.
Quasi nulla di strano, se non fosse che così inizia la battaglia di Sergio S. con la giustizia. Le carte che il padre del ragazzo raccoglie sono infinite. Almeno quanto le verifiche e le perizie cui l’uomo viene sottoposto, con la supervisione di assistenti sociali e specialisti. Ogni giudizio è impossibile, il rischio di volersi sostituire al magistrato senza conoscere tutti gli atti sarebbe sbagliato. Inevitabile attenersi alle conseguenze delle scelte dei giudici. A Sergio S. viene inflitta nel 2003 la prima condanna al pagamento degli alimenti del figlio. Ma la battaglia è solo all’inizio. Seguono perizie e denunce. Finché nell’ottobre 2007 all’uomo viene tolta la patria potestà sul minore. Nel gennaio 2009 la madre muore, ma neppure questo è sufficiente a cambiare la situazione, perché il tribunale di Savona affida il ragazzo alla sua sorellastra e, come altro eventuale tutore, il convivente della stessa giovane donna. Insomma, il figlio doveva stare con chiunque purché non con il padre. Anzi, con quell’uomo che ormai per la legge non era più suo padre.
Storia finita? Macché. Sergio S. continua a ricevere ingiunzioni di pagamento per gli alimenti del figlio. Cartelle da 60mila e 100mila euro, emesse a suo nome in quanto tenuto a provvedere al mantenimento di un ragazzo che non era più suo figlio. L’uomo viene anche condannato penalmente per il mancato sostentamento al minore. La stessa sentenza, esplicitamente, lo invita ad assumersi «la propria responsabilità».
Ed è a questo punto che il padre, dopo aver provato in tutti i modi a seguire comunque la crescita del ragazzo, si arrende. Ma chiede almeno che, visto che la giustizia vuole a tutti i costi strappare il legame di sangue con il figlio, la decisione sia coerente fino in fondo. «Se non sono suo padre, non possono neppure venirmi a cercare - esplode la sua rabbia -. Ormai non ritiro neppure più la posta che mi arriva, hanno tentato invano di pignorarmi l’auto, ma basta, a tutto c’è un limite». Sergio S. arriva addirittura al punto di scrivere al tribunale di Savona e poi a quello per i minorenni di Genova una lettera di «disconoscimento di minore». Un atto che viene respinto come irricevibile dagli uffici del ponente ligure.

«A Genova mi dicono invece che il caso è archiviato e che non hanno più tempo da perdere con me - lamenta l’uomo -. Ma nessun tribunale può dire che un proprio atto è immodificabile. Non so più cosa fare». Resta l’unico dato certo. Quello di un padre che per la legge non è più tale, ma che viene condannato perché non fa il padre.

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