C’è sempre un motivo per bersi un Bukowski

Era disperato, ma ottimista. I suoi libri sono sorsi benefici ad alta gradazione contro il perbenismo

C’è sempre un motivo per bersi un Bukowski

Le donne sono animali fondamentalmente stupidi ma si concentrano sul maschio con un impegno così totale da riuscire spesso a sconfiggerlo quando lui pensa ad altro». Immaginatevi a leggerlo oggi, un pensiero del genere, di fronte alle cariatidi woke, agli autorini da premio letterario, a quelli della cancel culture, ai chierichetti della narrativa che non disturba nessuno: gli cadrebbero le dentiere, o i denti da latte, sebbene ce l’abbiano sempre in bocca, il nome dell’autore, e lo nomineranno tutti ora, per il trentennale della morte.

Sto parlando di Charles Bukowski, che morì il 9 marzo del 1994, a settantatré anni, di leucemia. Il suo alter-ego Henry Chinaski ha scritto sei libri e migliaia di poesie e scritti e racconti, tutto un equilibrio sopra la follia, come canterebbe Vasco. Molti lavori precari, per riuscire a sopravvivere come un animale su un pianeta ostile, e poi a vivacchiare di scrittura, grazie all’editore John Martin della Black Sparrow, senza mai rinunciare all’alcol, che lo faceva sentire vivo e creativo (alla fine si ammalò di tubercolosi e morì di leucemia, non di cirrosi epatica). D’altra parte il suo teorema sull’alcol è ineccepibile: «Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare, se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare. E se « non succede niente? Si beve per far succedere qualcosa». Oppure: «Perché bevo? Perché non riesco a affrontare la vita quando sono sobrio».

Gli hanno appiccicato l’etichetta di «realismo sporco», come se la realtà fosse una cosa pulita, mentre Charles si era formato tra «ospedali, galere e puttane». Donne, alcol, alloggi precari, e soprattutto la scrittura, questo ha salvato Bukowski dall’autodistruzione. Oggi non entrerebbe in nessun festival letterario e in nessuna trasmissione televisiva italiana, la quale al limite invita l’autore incantato dalle montagne che dà della gallina a Bianca Berlinguer con un fiasco in mano, credendo di essere bukowskiano, ciao core.

I temi che trovate in Bukowski sono temi disperati, sulla disperazione, la disperazione di vivere, i suoi piaceri effimeri, e una ribellione a iniziare dal prendere a calci sé stessi. Ma spesso, nella sua scrittura diretta e rude, fuoriesce anche molta ironia, una risata liberatoria, perché come diceva Samuel Beckett quando sei sull’orlo dell’abisso non puoi che riderne. Anche per questo le sue donne preferite erano prostitute, le compagne hanno sempre cercato di salvarlo, riportandolo sulla retta vita, solo che Bukowski non era un impiegato di banca, era Bukowski, le sciocchine non l’avevano capito. Tra le tante cose, Bukowski attraverso Chinaski ha dato voce a una reazione dell’esistenza a cui è difficile dare torto: già la vita fa schifo, perché passarla a lavorare, facendo cose che non ci piacciono? Perché passarla frequentando persone che non ci piacciono? Non per altro amava «i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai, quelli persi, andati, spiritati, fottuti», tutti quelli insomma che non sono riusciti a stipulare il patto sociale.

«Non mi piacciono gli uomini perfettamente rasati, con la cravatta e un buon lavoro. Mi piacciono gli uomini disperati, con i denti rotti, il cervello a pezzi e una vita da schifo». In Factotum, a proposito, si legge: «Come cazzo è possibile che ad un uomo piaccia essere svegliato alle sei e trenta da una sveglia, scivolare fuori dal letto, vestirsi, mangiare a forza, lavarsi i denti e pettinarsi, poi combattere contro il traffico, per finire in un posto dove essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti viene chiesto di essere grato per l’opportunità di farlo?». Diciamo la verità: una risposta esistenzialmente intelligente a questa domanda non c’è.

È diventato il guru degli sconfitti, ma mai famoso in vita, non famoso come lo diventa oggi chiunque sappia usare bene un social per mostrare la propria bella vita mangiando ostriche in un resort, su cui Bukowski sputerebbe. Ma oggi lo si cita anche nei salotti buoni, ricorre perfino nelle conversazioni dei narratori più arrivisti, in carriera: ne potete sentir parlare anche Nicola Lagioia, il più impiegato di tutti (Valerio Chiara no, troppo misogino, troppo cis, sebbene per Valerio siano tutti misogini). In qualche modo Charles è l’organismo ribelle dentro un sistema ecologico, quello che non accetta le regole ma non fa male a nessuno se non con la sua scrittura, e con quest’ultima salvando sé stesso e salvando il lettore che vive la stessa disperazione dal sentirsi solo, alienato, senza un rappresentante di questa ribellione verso l’esistenza, la normalità, le regole, la cravatta che per lui poteva servire solo a impiccarsi.

Alla fine, dopo centinaia di donne, nel 1976 una donna che amava e lo amava la trovò, quella Linda Lee Beighle (è la Sara di Donne e Hollywood, Hollywood!) che riuscì a fargli rinunciare ai superalcolici per bere solo vino.

Per concludere, proprio per celebrare il trentennale, la casa editrice Tea ripubblica una selezione di bei titoli bukowskiani in una veste grafica accattivante, semplice, colorata (La campana non suona per te, Donne, Factotum, Panino al prosciutto, Post Office), perché sebbene siano passati trent’anni dalla morte, non è ancora degno per Adelphi (che con i morti di culto di solito va a nozze), o viceversa: sono loro troppo fighetti per Bukowski.

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