Macchine del controllo. Da La Boétie a Kant la filosofia ci mostra i rischi che corriamo

Nel corso del tempo abbiamo costruito un "Leviatano" sempre più forte

Macchine del controllo. Da La Boétie a Kant la filosofia ci mostra i rischi che corriamo

In poche pagine, nel lontano 1784, Immanuel Kant cercò di illustrare il senso più autentico dell’Illuminismo esaminando alcuni concetti che restano interessanti anche per noi. In quel testo, infatti, il filosofo tedesco individuò nell’Illuminismo lo sforzo dell’uomo moderno di affrancarsi da ogni dipendenza e minorità. Ai suoi occhi, i protagonisti di questa nuova umanità emergente stavano scoprendo l’esigenza di non dipendere più da un libro o da un’altra persona, perché appariva sempre più forte l’esigenza di costruire interamente da sé le ragioni della propria esistenza. «Se ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che pensa per me», dice Kant, è come se fossi assolto dall’obbligo di riflettere e ragionare.
Tra le righe, egli non solo liquidava ogni autorevolezza della Bibbia, ma esaltava un’autonomia irrealistica e ingiustificata, perché inconsapevole dei limiti della ragione umana. Quando egli ci chiede di non consultare un medico per decidere quale deve essere la nostra dieta, ad esempio, egli appare inconsapevole del fatto che è invece piuttosto razionale rivolgersi a chi ne sa di più per avere qualche utile consiglio.
Nel medesimo testo, però, egli soprattutto distingueva tra un uso privato e uno pubblico della ragione. Se da un lato esaltava quindi l’impossibile libertà assoluta di un razionalismo filosofico poggiante interamente su se stesso (uso pubblico), al contempo egli ricordava che ognuno di noi in quanto cittadino è chiamato a obbedire senza discutere: si tratti di obbedire in guerra, pagare le imposte o altro ancora (uso privato).
Anche se apparentemente ci presentava l’ideale di una libertà totale, nei fatti Kant rimaneva allora fedele alla lezione autoritaria di Thomas Hobbes. In effetti, egli era persuaso che la stessa possibilità di una vita morale – oltre che di qualsiasi attività razionale – poggiasse su quell’ordine civile che a suo dire può essere garantito solo da un Leviatano che non riconosce nulla sopra di sé. Quel dio mortale che s’è incarnato nei poteri dello Stato moderno, così come s’è sviluppato alla fine dell’età medievale, esige che ognuno s’abbandoni totalmente e rinunci a se stesso. In tal senso, ha perfettamente ragione David Runciman quando ritrova nel dna della modernità politica l’essenza di questo nostro affidarsi a macchine senza vita e senz’anima, quale ora si manifesta pure nel dispiegarsi dell’intelligenza artificiale e di una serie di algoritmi che decidono al nostro posto. In generale, il modo in cui si legge la situazione in cui ci troviamo, però, è viziato proprio da quella prospettiva che Kant ha interpretato in modo così autorevole. Anche quanti sono preoccupati di fronte allo scenario presente non riescono a nutrire il minimo sospetto nei riguardi della nuova divinità: quell’insieme di regole arbitrarie e incarichi di potere di cui si vive la politica. Non a caso, sebbene sia evidente che la prima e fondamentale abdicazione alla propria libertà e responsabilità abbia avuto luogo dinanzi a quei re che hanno preteso un dominio illimitato (superiorem non recognoscens: che non riconosce nulla sopra di sé) e che hanno generato gli assetti del nostro tempo, più di frequente vengono messe sotto accusa le grandi imprese private: le quali oggi sono quasi interamente integrate al sistema di potere, ma proprio in ragione dell’espansione delle logiche governative.
È con la nascita del potere moderno, che si è voluto monopolista della violenza e divinità terrena, che prende via quel mutamento che ha prodotto la servitù volontaria (per usare la formula di Étienne de la Boétie).
Non a caso, le relazioni si faranno sempre più impersonali e funzionali: perfino il monarca diventerà un burocrate, tanto che più della sua persona conterà il ruolo che ricopre (com’è chiaro nella formula «è morto il re, viva il re»).
Esserci abbandonati nelle mani di congegni politici mostruosi e senz’anima – variamente rielaborati da giuristi, generali, economisti, ingegneri sociali, virologi, ecologisti ecc. – ci ha condotto in questa situazione. E se siamo disarmati di fronte ad apparati informatici che rielaborano le conoscenze diffuse in rete, sulla base (comunque) di ben precise linee-guida adottate dai “programmatori”, è perché abbiamo alle nostre spalle parecchi secoli di un’ingiustificata credenza nel dovere di obbedire a qualche nostro simile. È da tempo, in effetti, che ci si insegna che Emanuele deve obbedire a Federico, e che Federico è legittimato a imporre la sua volontà soltanto perché talune procedure (ma chi le ha scelte? quali legittimità hanno?
su quali ragioni morali poggiano?) gli hanno affidato un ben preciso ruolo. E ora il sistema di dominio s’è fatto talmente pervasivo che tutto è divenuto al tempo stesso “pubblico” e “privato”, mentre non rimane nemmeno un minimo spazio a quella libertà puramente filosofica (ed essenzialmente innocua) che pure Kant avrebbe voluto proteggere.
Runciman ha ragione quando evidenzia che il macchinismo di un’intelligenza impersonale replica le logiche dello Stato, quale è stato variamente teorizzato da Hobbes, Rousseau e altri ancora.

E se il trionfo di quel potere sovrano ha già comportato una lunga scia di sangue e un generale istupidimento delle masse e delle élite, non possiamo sorprenderci più di tanto se oggi si guarda spesso con timore al diffondersi di quelle tecnologie spesso usate per controllarci e indebolirci.

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