Controcultura

Solzhenicyn ancora prigioniero nel Gulag della ideologia

Cinquanta anni fa veniva pubblicato il capolavoro del dissi.ente russo In Italia tutti lo disprezzarono, tranne Enzo Bettiza, che ne scrisse sulle pagine di questo "Giornale". Ecco l’articolo.

Solzhenicyn ancora prigioniero nel Gulag della ideologia

Spiace davvero che uno scrittore libero da pregiudizi come Carlo Cassola, noto per le sue periodiche meditazioni anticonformistiche sulla letteratura universale, abbia chissà perché sentito d'un tratto l'imperioso bisogno di conformarsi a un gioco che oggi va nei salotti in linea: la denigrazione di Aleksandr Isaevic Solzhenicyn. In un'intervista al Mondo della settimana scorsa Cassola, dopo aver candidamente ammesso di non conoscere una parola di russo, non s'è tirato indietro e anzi, con la sbrigativa perentorietà di uno slavista molestato nei suoi studi da una fastidiosa zanzara, ha raso con un colpo a zero le 606 pagine del primo volume dell'Arcipelago Gulag. Con poche parole, tirate via sul filo di una frivolità scorrevole e punitiva, il narratore toscano ha fatto giustizia sommaria dell'opera del russo, trattato alla stregua di un principiante capace di compitare sì e no qualche lettera dell'alfabeto cirillico. Cassola ha fugato così, una volta per tutte e per tutti, l'ombra d'ogni residua esitazione. Solzhenicyn? Non esiste. «Un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. L'ho letto in traduzione, ma in traduzione ho letto anche Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Turgenev, Pasternak, sui quali non ho dubbi. Con Solzhenicyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio. È evidente che è stato il caso politico a portarlo alla ribalta». DALLE VISCERE Il sospetto che sia stata la Russia a riportare dalle proprie viscere a galla gli scritti anonimi e la torva barba da vecchio credente di Solzhenicyn, non sembra incrinare neanche con un brivido la severa imperturbabilità del giudicante; così come non sembra sfiorarlo il dubbio che i suoi stessi romanzi d'amore, tradotti in russo, possano perdere qualche grammo di peso a petto dei fluviali trattati di morte di Solzhenicyn tradotti in italiano. D'altronde, con gli stessi argomenti speciosi usati oggi per raccorciare la statura di Solzhenicyn, non s'era tentato, una quindicina d'anni fa, di liquidare sul piano letterario proprio quel famoso romanzo di Pasternak sul quale Cassola dice di non nutrire dubbi di sorta? Ricordate. Si sosteneva allora, in Russia e fuori, che Pasternak, delicatissimo poeta simbolista, era però un romanziere scadente, frammentario, piagnucoloso, privo del senso della storia, assolutamente incapace di costruire situazioni e personaggi narrativi. Anche di Pasternak, come oggi di Solzhenicyn, si diceva che era un Tolstoj di serie C: uno gnomo del romanzo epico, gonfiato a dismisura da un incidente politico. Ma via via che c'inoltriamo nel passato della letteratura russa, che fu sempre una letteratura di fondo impuro, pedagogico, missionario, ci accorgiamo che il ricatto estetico, con cui oggi si cerca di «ridimensionare» Solzhenicyn, non è affatto nuovo. Già lo subirono alcuni dei massimi scrittori dell'Ottocento. Dostoevskij a suo tempo venne accusato di distorcere la realtà della Russia in moto verso l'ascesi rivoluzionaria, gettando fango sull'intelligencija radicale e incenso mistico sul popolo, e perdippiù di scrivere male, di costruire le sue trame morbose a singulti epilettici, di non saper rendere vivo un personaggio femminile, di non riuscire ad elevarsi, né con lo stile né con l'immaginazione, al di sopra della cronaca nera a cui avrebbe attinto in mancanza di una originale fantasia creativa. Da una certa ottica purista occidentale, almeno tre quarti della letteratura classica russa andrebbero in verità scartati per la loro scrittura andante, derivata dal giornalismo, spesso ipertrofizzata d'idee e di intenzioni edificanti. Di rado uno scrittore russo, veramente russo, ha cercato d'inventare un'opera bella, fine a se stessa, o bastante a se stessa; sempre ha cercato invece, obbedendo magari inconsciamente all'inflessibile codice etico conficcato alla sorgente del fiume narrativo russo nella metà del secolo scorso da Belinskij, di dare un'opera utile alla nazione russa. Al limite, come voleva appunto Belinskij, un'opera d'alta propaganda; se poi diventava arte, tanto meglio; ma l'intenzione artistica non contava molto nel momento in cui lo scrittore, avviando un nuovo romanzo, si sostituiva al giornalista, allo storico, al filosofo, al riformatore, i quali non riuscivano a operare con altrettanta libertà nei loro campi rispettivi. La perfezione artistica di Tolstoj, soprattutto in Guerra e pace e in Anna Karenina, veniva alla luce per così dire malgré lui e le sue idee evangeliche, derivava dall'alta classe aristocratica a cui apparteneva con tutto il suo sangue: era un riflesso naturale della sua ottima educazione settecentesca, francesizzante, nutrita di buone letture e di gusto sicuro. Ma Tolstoj, uomo del Settecento, era un'eccezione nel flusso letterario dell'Ottocento. La regola era rappresentata piuttosto da Dostoevskij: uomo dei nuovi ceti emergenti, dei raznochincy, dei «senza grado», intrisi di ansie nuove, di gusti più dubbi, sospinti verso la letteratura da un duplice impulso misticheggiante e radicaleggiante. È a questa corrente più esaltata e più predicatoria del realismo russo, didattica e visionaria insieme, populistica e ortodossa, pietosa e rigoristica, che il personaggio Solzhenicyn, prima ancora che lo scrittore, si riallaccia in maniera diretta. Se non lo si colloca su questa mappa spirituale della profonda Russia ottocentesca, lo si perde di vista o si rischia di vedere qualcuno che lui non è e non può essere. CASO RELIGIOSO Innanzi tutto Solzhenicyn non è soltanto un caso letterario, o soltanto un caso politico. Egli è, essenzialmente, un caso religioso. E la sua rivolta di fondo mistico ha un peso particolare soprattutto perché è maturata assieme ai fallimenti di un esperimento sociale fideistico che, fino dal 1918, data di inizio dell'arcipelago concentrazionario, ambiva a un'impossibile totalità. Né le capziosità estetizzanti, né l'ostilità preconcetta di tanti intellettuali occidentali, sono riuscite non dico a spiegare, ma nemmeno a centrare nella cornice esatta il fenomeno Solzhenicyn. Dal punto di vista di una frivola subcultura di sinistra certamente Solzhenicyn, a causa della violenza antideologica dei suoi scritti e della fermezza dissacrante della sua denuncia che non lascia più spazio a ideali posticci, può apparire «reazionario». Nel panorama variegato dell'intelligencjia d'opposizione sovietica, se lo si contempla dall'esterno, Solzhenicyn sembra infatti rappresentare una nuova destra slavofila, mentre l'illuminato Sacharov si pone al centro e il marxista Medvedev slitta a sinistra. Però, da un'ottica interna sovietica, il vero e pericoloso radicale è lo scrittore religioso, che propone alla nazione russa una soluzione che non va più contro ma già al di là del regime. LA TRADIZIONE L'opera di Solzhenicyn è tanto perniciosa per il regime sovietico, quanto è irritante per quegli intellettuali d'Occidente che vorrebbero dipingere di rosso, o almeno di rosa, anche i sopravvissuti ai campi staliniani. Solzhenicyn insomma, richiamandosi alla sola tradizione spirituale russa rimasta viva nel popolo dopo l'ecatombe, la tradizione religiosa, indispettisce e disturba perché non rispetta le regole della letteratura da camera, perché stravolge le simmetrie del gioco, perché inserisce nella rappresentazione artistica il contagio di elementi terribili che in parvenza dovrebbero esserle del tutto estranei. Forse, l'animosità di tante piccole anime per Solzhenicyn sgorga da due sentimenti.

Uno, di smarrimento mentale, prodotto dall'inesorabile violenza che la sua opera e la sua tragedia personale hanno esercitato sulle vecchie consuetudini ideologiche. L'altro, d'invidia creativa, provocato dai materiali insanguinati di quella sua stessa tragedia personale: quale scrittore al mondo ha oggi più cose da dire, da raccontare, di Solzhenicyn? Quando mai l'Occidente, con le sue surreali microrivoluzioni di minorenni, potrà offrire simili micidiali veleni alla ispirazione di un pensatore o di un artista?

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