Lo spirito dell'anarchia

Quel distacco dal potere che diventa un grande potere (anche in letteratura)

Lo spirito dell'anarchia

Nel suo ultimo e significativo libro, Alla foce, pubblicato da Einaudi (pagg. 272, euro 24), il filosofo Giorgio Agamben affronta una questione suggestiva e appassionante: quali sono il vero significato e la natura intrinseca dell’anarchia. Lungi dal liquidarla come semplice dottrina politica o come sinonimo di caos, Agamben la descrive innanzitutto come una forma di vita.
Secondo il pensatore italiano, l’anarchia si configura come una condotta umana, un modo di esistere e di agire che è radicato nell’assenza di potere. Questa condotta, pur non sfociando in un individualismo puro e sprezzante, anzi potendo essere al limite condivisa e praticata collettivamente, si definisce proprio a partire da una radicale mancanza di arché, ovvero di principio, di comando, o di dominio. L’anarchia, in tal senso, non assume né intende assumere in alcun caso la forma dell’esercizio del potere. La sua essenza risiede nell’essere un modo di essere che disinnesca la logica del comando e dell’obbedienza.
È a questo punto che Agamben solleva la domanda cruciale sulle implicazioni di tale definizione. Se l’anarchia si costituisce come mancanza radicale di potere, questo implica forse che essa sia da intendersi come una forma puramente negativa e vuota? La questione si concentra sul rischio di considerare l’anarchia come nient’altro che impotenza, una mera abdicazione di ogni possibilità di azione effettiva, o una completa rinuncia a essere in modo concreto e reale nel mondo. La sua radicale non-coincidenza con l’esercizio del potere suggerisce il pericolo di ridurla a un’inerzia, a un ritiro passivo e inefficace di fronte alla realtà. Agamben, quindi, spinge il lettore a interrogarsi se questa forma di vita sia in grado di generare una prassi affermativa o se sia condannata a rimanere un ideale puramente negativo, privo di concretezza e di capacità trasformativa.
L’interrogativo cruciale posto da Giorgio Agamben riguardo il vero significato dell’anarchia illumina, a ben vedere, un aspetto fondamentale di una posizione intellettuale in cui è imperativo potersi riconoscere e prendere una chiara distanza critica. Ci troviamo immersi in una contemporaneità liquida e pervasiva che, in modo sempre più sottile e surrettizio, ripropone forme di engagement forzato. Assistiamo quotidianamente a una vera e propria ingegneria del consenso, fatta di ipocrisia e mistificazione, dove la figura e la voce dell’intellettuale rischiano di essere svuotate del loro ruolo critico.
La funzione del pensatore è spesso utilizzata e cooptata per diventare nient’altro che l’amplificatore mediatico di una opinione pubblica precotta, tendenzialmente perbenista e, non di rado, eticamente ricattatoria. Si crea un circolo vizioso in cui il dissenso autentico viene marginalizzato, mentre le voci allineate vengono promosse come presunta «coscienza critica» della società. Questo scenario di conformismo dilagante e di acquiescenza silenziosa richiede una reazione radicale.
Il cuore della riflessione sull’anarchia, così come viene proposta da Giorgio Agamben, risiede in un profondo paradosso filosofico: la capacità di far coincidere la potenza con l’impotenza. Questa apparente contraddizione mina alle fondamenta la nostra comprensione occidentale della realtà e dell’azione. Comunemente, infatti, si è portati a credere che ogni realtà (actus) debba essere necessariamente preceduta da una possibilità (potentia) che deve, per logica, preesistere ad essa. Se posso fare qualcosa, è perché prima ne ho la capacità.
Tuttavia, il pensiero classico, in particolare la metafisica aristotelica, aveva già colto e spiegato con acutezza come, in un certo senso, l’atto (energeia) avesse una precedenza logica e ontologica sulla potenza (dynamis). Senza una effettiva realizzazione o attualizzazione di qualcosa, non si potrebbe nemmeno attribuire un senso compiuto a una sua potenzialità astratta. La potenza si rivela, in ultima analisi, solo nell’atto.
Rimanendo rigidamente all’interno di questo quadro metafisico classico, si finirebbe però con l’appiattire inevitabilmente la potenza sul potere di esecuzione. La potenza (dynamis), in questo senso limitato, sarebbe intesa solo come il potere di fare o di realizzare qualcosa di specifico, una mera capacità attiva orientata al risultato.
Agamben, rifacendosi a intuizioni filosofiche meno ortodosse, spinge oltre tale definizione.
Al contrario, egli sostiene che alla potenza, alla sua stessa e più radicale definizione, inerisce necessariamente anche il potere di non fare o di non realizzare. Non è solo la capacità di agire, ma anche la capacità di non agire odi sospendere l’azione. In altri termini, la vera e piena potenza implica la capacità di poter rendere impossibile ogni sua possibilità. Questa potenza negativa non è semplice passività o debolezza, ma una forza intrinseca che preserva la libertà radicale di astensione.
Questa capacità di poter non-essere o poter non-fare è il punto cruciale dove l’anarchia, come forma di vita, trova la sua legittimità ontologica. Tale intuizione ha un’eco potente nel pensiero del Novecento: Martin Heidegger aveva infatti colto, nell’analisi della finitudine esistenziale – e specificamente nell’essere-per-la-morte (Sein zum Tode) – la possibilità dell’impossibilità di ogni possibilità. La morte, come possibilità certa ma irrealizzabile nel senso di poterla fare, manifesta che l’essere umano è definito dalla sua capacità di poter non-essere. Agamben riprende e trasla questa struttura al piano etico-politico: l’anarchia è la forma di vita che esercita questa potenza negativa, sottraendosi alla tirannia dell’atto e del potere costituito. Essa non è impotenza, ma la suprema potenza di non sottomettersi all’atto coatto.
Al di là delle formule filosofiche che potrebbero apparire troppo astratte o lontane dalla prassi, Agamben riesce a piegare la figura complessa dell’anarchia in un modo sorprendentemente efficace attraverso l’ispirazione della scrittura.
Questa analogia serve a rendere palpabile il concetto di potenza che può non-fare e a tradurlo in un gesto creativo e resistente.
Lo scrittore, in quest’ottica radicale e non convenzionale, non è affatto colui che si limita a possedere o esibire la mera capacità di scrivere – la competenza tecnica o la padronanza stilistica. Al contrario, egli è colui che opera una sottrazione essenziale: lascia essere la parola, consentendole di manifestarsi nella sua nudità e nella sua forza inaudita. Questo implica sottrarre il linguaggio alle mere possibilità codificate del suo impiego, a quelle funzioni comunicative predeterminate, utilitaristiche o ideologiche che ne limitano la portata. L’atto di scrivere diventa, pertanto, un gesto anarchico che rende reale ciò che a livello pragmatico e logico sembra impossibile. Egli non usa la lingua, ma ne libera il potenziale.
Eccoci, dunque, di fronte a una nuova e illuminante declinazione dell’anarchia: non più solo assenza di governo o principio, ma come prassi liberatoria del dire. L’atto di scrivere si compie affinché un discorso inaudito possa finalmente essere liberato dalle imposture del presente e dalle urgenze stordenti dell’attualità. Si scrive per dare voce a ciò che la doxa e il potere linguistico hanno marginalizzato o reso muto, per squarciare il velo dell’ovvietà.
L’anarchico in senso letterario è uno scrittore a venire, la cui parola germina in un suolo insondabile, in un territorio interiore e linguistico non ancora occupato.
La sua è una scrittura senza appartenenze fisse, priva di bandiere e di etichette prestabilite, che si sottrae alla classificazione e alla cooptazione.

In questo gesto di disancoraggio, la scrittura realizza pienamente la potenza di non-sottomettersi alla necessità dell’atto comunicativo dominante, creando uno spazio di libertà e di possibilità ontologiche genuine, un luogo dove la lingua ritrova la sua forza originaria di creazione, non di mero strumento.

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