Letteratura

Quegli eroi del quotidiano per difendere la terra dei figli

Siamo alla fine di un'epoca. Non sappiamo cosa accadrà in futuro. Ma una cosa è certa: servono nuovi eroi per sconfiggere la decadenza che avanza

Quegli eroi del quotidiano per difendere la terra dei figli

La terra dei figli. Non quella dei padri, che si eredita e si difende. Ma quella futura. Quella che sarà. Esperia, l’Italia, è la terra dei figli. Enea, infatti, prima di essere padre è innanzitutto il figlio di Anchise, lo storpio, che decide di portare sulle spalle mentre Troia cade in fiamme. Il vecchio vorrebbe esser lasciato lì a morire, ma Enea decide di prenderlo con sé: che senso avrebbe salvare se stessi sacrificando le proprie radici? Che senso avrebbe lasciar morire la propria tradizione? L’eroe troiano ha però anche un figlio da proteggere: Ascanio. È per lui che cerca una nuova terra che, dopo una serie di peripezie, riuscirà a trovare in Esperia. Una terra che sarà allo stesso tempo del figlio-padre (Enea) e del figlio (Ascanio). E che sarà dunque la terra di due figli. Dei figli.

E La terra dei figli. Nuovo sillabario per la rinascita culturale (Signs Publishing) è il titolo dell’ultimo libro di Stefano Zecchi, filosofo, giornalista e oggi il candidato più adatto presentato dal centrodestra per ricoprire il ruolo di assessore alla Cultura in regione Lombardia. L’incipit del volume di Zecchi è tranchant e, apparentemente, inquietante: “Questo è il secolo del tramonto: abbiamo visto tramontare la speranza di fare della terra una casa per l’uomo, lentamente si è dileguata la fede in quell’energia creativa che aveva affidato alle grandi opere dell’arte il compito di rappresentare mondi possibili, si è inaridita la volontà della scienza di cercare nuove cosmogonie per stringere un patto con l’infinito e con l’eterno”. In questo crepuscolo post moderno le ombre si fanno sempre più lunghe e il nichilismo, che si è incarnato nella tecnica, è sempre più violento: “La tecnica moderna è (...) una tattica di vita che si afferma in opposizione alla natura, che costruisce macchine per potenziare quanto più possibile la volontà d’azione dell’uomo. Non c’è spazio in cui non interviene, trasformando il mondo organico in un mondo artificiale, abituandoci a vivere in una realtà scambiata, dove appare naturale ciò che invece è il prodotto della macchina”. Riecheggia la lezione sulla tecnica del filosofo spagnolo Ortega y Gasset secondo cui l’uomo è “l’unico ente conosciuto in possesso della facoltà (…) di potersi annichilire smettendo di stare lì, nel mondo”. È questo scollamento dalla realtà, dalla terra appunto, che ha messo in crisi l’uomo post moderno. Che fare, dunque? Piangersi addosso? Struggersi per un tempo ormai passato che non c'è più?

Queste non sono possibilità. Vivere è infatti agire. Perché senza movimento non esiste nemmeno il tempo. E dunque bisogna fare qualcosa. Ma cosa? Seguire un modello, innanzitutto: quello dell’eroe. Ogni civiltà ne ha uno. Ed è cambiato nel corso dei secoli. Ci poteva essere l’eroe virtuoso, quello dotato di ingegno o quello più forte o più valoroso. A noi, che camminiamo sulla strada del tramonto, tocca essere “eroi del quotidiano”. Scrive Zecchi: “A contrastare questo deserto che avanza e a ricordare che è ancora possibile sperare in una diversa immagine del mondo, rimane il valore simbolico dell’azione dell’eroe: un eroe che oggi, ricorda Baudelaire, non brandisce lo scudo e la lancia, ma può semplicemente indossare la giacca e la cravatta. E, non a caso, il romanzo che inaugura la nostra modernità europea parla proprio di un nuovo eroe, maltrattato e deriso dagli uomini dei tempi umani”. Il nuovo eroe è don Chisciotte: “Il suo eroismo è nel bisogno di affermare, contro le verità del mondo moderno e le sue regole, un significato universale della vita, una convinzione morale assoluta, che non possono, non devono, mutare con i nuovi interessi della Storia. Il suo eroismo esalta un’eterna, incorrompibile idea dell’amore e della bellezza che è sensualità, contemplazione e poesia”.

E forse questo cavaliere un po’ sgangherato ha in comune qualcosa con un altro cavaliere, ma dalla testa di ferro: quello di Jean Cau. Entrambi, seppur in modo diverso - uno in maniera dinoccolata e l’altro attraverso una marcia dritta come una lancia - marciano per la loro strada, senza curarsi troppo dei cambiamenti che si verificano attorno a loro. Sanno che il loro mondo è un altro. Ed è più alto. Ed è a quello che tendono.

Anche, ma forse sarebbe meglio dire soprattutto, quando cala il tramonto.

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