L'Europa di oggi? Un inferno fiscale

L'intervento statale è così pervasivo da impedire la riduzione del prelievo

L'Europa di oggi? Un inferno fiscale

D a tempo l'Europa è in declino e sul tema il consenso degli studiosi è ampio. Il semplice fatto che il ventesimo secolo sia stato definito il «secolo americano» attesta come quello che per molti secoli è stato il centro del mondo ora non lo è più. E dopo la grande espansione degli Stati Uniti adesso si sta assistendo a un nuovo protagonismo dell'Asia, in generale, e dei Paesi di cultura cinese, in modo particolare. Negli ultimi anni, per giunta, la crisi dei debiti pubblici sta rendendo ancora più evidente la marginalizzazione di quell'Europa che - in passato - aveva la forza di conquistare il mondo intero: con gli eserciti, ma anche e soprattutto con l'economia e la cultura.

Sulle ragioni di questo rapido declino le opinioni sono però divergenti. La prospettiva liberale riconduce tale crisi a un dato macroscopico e al tempo stesso troppo ignorato: al fatto, cioè, che dopo la dissoluzione dell'impero sovietico il Vecchio Continente è l'area a più alto intervento pubblico e, di conseguenza, con la tassazione più pesante. In un'economia globalizzata che vede imprese e capitali muoversi alla ricerca delle condizioni più favorevoli, essere un universo istituzionale dominato da «inferni fiscali» rappresenta un gravissimo handicap che, molto velocemente, sta minando la capacità degli europei di competere a livello internazionale. Va pure ricordato che lo Stato moderno e il socialismo sono invenzioni europee, poi esportate con successo un po' ovunque. Innamorati delle elaborazioni concettuali di Jean Bodin e Jean-Jacques Rousseau, di Thomas Hobbes e Karl Marx, gli intellettuali francesi e tedeschi hanno costruito un orizzonte ideale che ha progressivamente favorito l'imporsi di azioni lobbistiche in grado di usare i poteri pubblici per soddisfare ogni bisogno e desiderio. In tale quadro, i produttori sono stati sempre più gravati da oneri insopportabili, così che oggi si vedono sottrarre dall'apparato politico-burocratico più della metà di quanto realizzano. Ovviamente la situazione europea, al suo interno, include casi abbastanza diversi. Anche sulla scorta della lezione di Milton Friedman e altri, negli scorsi anni vari Paesi post-comunisti hanno adottato politiche più liberali e in ambito fiscale non hanno esitato a introdurre una tassazione moderata, non progressiva (la flat tax), relativamente semplice sul piano degli adempimenti. Oltre a ciò persistono Paesi che manifestano una qualche resistenza di fronte allo statalismo più estremo (si pensi alla Svizzera o anche al Regno Unito), ma questo non toglie che nel suo insieme la strada intrapresa dall'Europa sia chiara. Per giunta è ormai forte la volontà di considerare illegittima ogni politica nazionale volta ad attrarre capitali e investimenti riducendo il prelievo. La tendenza prevalente è quella di considerare ogni tassazione limitata alla stregua di un aiuto di Stato, dal momento che è considerata normale un'ipertassazione ed eccezionale una sottrazione contenuta della ricchezza. In questo modo il processo di unificazione politica potrebbe accompagnarsi a una crescente armonizzazione dei sistemi fiscali: naturalmente verso l'alto. Chi parla di uniformare il fisco non pensa certo di estendere a tutta l'Europa il modello del Lussemburgo, ma semmai di proteggere Paesi come l'Italia e la Francia da ogni fuga di capitali, lavoratori e imprese.

La possibilità che l'Europa torni a essere dinamica e vivace, nuovamente creativa e capace di aprire strade inedite, passa allora dalla fine dell'innamoramento per lo Stato che la caratterizza

da tempo e, di conseguenza, da una massiccia riduzione delle risorse sottratte con l'imposizione tributaria. Ma solo un'Europa plurale e caratterizzata da un'ampia competizione tra sistemi può provare a invertire la rotta.

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