Cultura e Spettacoli

LEWIS Mondi di fiabe in inchiostro indelebile

Il suo capolavoro diventa un film, e così si torna a parlare del dotto professore che insegnava a sognare

Chi l’avrebbe detto di quel signore un po’ trasandato, seminascosto sotto un vecchio cappello di panno e avvolto in un impermeabile color del fango? Con quel nome impossibile da pronunciare e ricordare: Clive Staples, tanto che lo chiamavano in tutt’altro modo: Jack o anche Jacks. Quel signore che si ritraeva con severa veterotestamentarietà davanti alla moda omosessuale di tanti - docenti e studenti - nella Oxford fra le due guerre. Chi l’avrebbe detto che avrebbe tirato fuori dalla penna mondi fantastici e amati da vaste schiere di bambini? Il primo abbozzo venne letto agli amici un martedì mattina del 1949, tra una birra e una fetta di prosciutto attorno a un tavolo del «Bird and Baby».
«B & B» era il pub di Oxford dove si riuniva da una decina d’anni un manipolo di docenti e scrittori che alcuni definivano picchiatelli e che invece erano dei geni. Erano menti che guardavano al passato come a una terra d’origine, proprio quando tutto intorno a loro gridava l’ansia del moderno. Mentre cadevano Imperi e sorgevano ideologie infernali, quel pugno di uomini scavava verso il Medioevo e l’amor cortese, sottraeva alla polvere e all’oblio sensi e significati che sembravano persi per sempre. Li accusavano di «escapismo», di scappare dalla realtà ma la loro era una corsa verso la realtà. Quella vera, quella che il vapore, il metallo, le armi del progresso e tutti gli ingranaggi della modernità stavano asfissiando con allegra noncuranza. Né si può dire fossero sognatori: anzi, molti di loro avevano conosciuto l’orrore dei gas e il graffio delle ferite nelle trincee sul continente. Si erano dati un nome un po’ strano, Inklings, perché suggeriva l’idea di persone piene di indizi, di spunti, e con le dita sporche di inchiostro.
Tra una fumata di pipa e una birra, non è facile dire quanti fossero, forse una ventina; ma qualche nome è ben più significativo del loro numero: J.R.R. Tolkien, per esempio, quello che studiava le antiche lingue europee - un’autorità assoluta, nel ramo - e aveva scritto un racconto assurdo (ma ben venduto) su un certo Hobbit che viveva in un buco sotto terra. Si diceva lavorasse da vari anni al seguito di quel lavoro, ma altri colleghi lo prendevano in giro perché, evidentemente, perdeva il suo tempo. C’era poi un visionario a nome Charles Williams, che si baloccava con miti ancestrali e viaggi nel tempo e nello spazio. E poi c’era C.S.L. (dove L. sta per Lewis), lo scapolo e il docente senza cattedra, che era poi il nostro Jack.
Lewis si era fatto apprezzare dal mondo accademico nel 1936 con un’opera innovativa e monumentale, L’allegoria d’amore, uno studio sulla tradizione medievale dell’amore che aveva rinnovato gli studi di letteratura e non solo. Era anche un cristiano convinto - da ateo convertito - e dalla penna ricercata, come testimoniava il libro Le due vie del pellegrino (1933) che non temeva di abbracciare la causa dell’apologia sposata con la ragione e il romanticismo. Aveva inoltre dispiegato tutta la sua verve ironica e spirituale nelle pagine acute e sulfuree de Le lettere di Berlicche, dove un onesto diavolo cercava senza troppo successo di educare il nipote Malacoda alla difficile arte del Tentatore, ovvero la perversione delle anime. Era poi volato verso il cosmo dell’immaginazione alla ricerca delle origini del mistero umano con due romanzi ambientati fuori dal nostro pianeta: Lontano dal pianeta silenzioso e Perelandra, dove la terra ondeggia come il mare e l’acqua è solida come pietra.
Aveva così firmato una ventina di opere da un capo all’altro dei generi e delle tematiche ma restava escluso dai circoli migliori perché pensava - e scriveva - che i suoi colleghi fossero dei monotematici, anzi degli ultraspecialisti ammalati di miopia culturale. Aborriva cioè la fossilizzazione del pensiero e dell’anima e forse proprio per questo quel giorno al «B & B» tirò fuori l’abbozzo di un romanzo per bambini che era destinato a essere il primo d’una serie. C’è da dire che Jack non sapeva ancora la fortuna che avrebbe avuto Il leone, la strega e l’armadio, la fiaba che ha conquistato intere generazioni di lettori e cui ora la Disney darà nuovo impulso.
In un mondo di fresco creato, Narnia, una strega finita lì per i pasticci di un paio di bambini portava il germe del male, scatenando anche in quell’angolo di Paradiso guerra e dolore, paura e combattimento. Cominciavano a essere così compilate le Cronache di Narnia, nelle cui pagine Lewis infuse il più possibile della sua visione cristiana dei figli di Adamo, del compito che attende ciascuno, del distinguo tra sacrificio e piacere, tra ego e dono di sé. Un quadro di lotta tra Bene e Male che non sarebbe dovuto spiacere al suo grande amico Tolkien, il quale proprio in quei mesi chiudeva Il Signore degli anelli. E proprio di anelli si parlava in Narnia, e di alberi, nani, animali fantastici, piante che si muovono... Ma l’amico non apprezzò quel primo racconto, perché Lewis l’aveva scritto in fretta senza troppo badare alle coerenze interne dei luoghi, dei tempi, dei personaggi. E la cosa era inconcepibile per il padre di Frodo e Aragorn, che aveva riscritto interi capitoli della sua trilogia per via di qualche calcolo errato negli spostamenti tra un luogo e l’altro della Terra di Mezzo.
V’è da dire che gli altri sei volumi della serie di Narnia sarebbero migliorati non poco sotto questo punto di vista: Lewis e gli Inklings riflettevano quotidianamente sul loro lavoro, migliorandosi e affinandosi, rinnovando il mondo dei «racconti per bambini» perché pensavano che dovessero essere leggibili a tutte le età e che fosse solo la forma di qualcosa di eterno. E ora si possono leggere degli inediti in Italia su queste tematiche in un volume edito da Marietti (Come un fulmine a ciel sereno) e nell’appendice (Tre modi di scrivere per l’infanzia) alle Cronache di Narnia in edizione Mondadori.
Eppure non tutto era idillio. Un qualche fatto doveva aver diviso gli amici di un tempo, perché il rapporto si intiepidì pur senza mai gelare del tutto. Fra l’altro c’era stata la faccenda del matrimonio di Jack. Di quella donna americana, Joy, che aveva letto i suoi libri, era venuta un’estate a conoscerlo, era tornata oltreoceano per divorziare e s’era poi sposata con lui. Civilmente prima, e di nascosto. In chiesa poi, e sempre senza invitare gli amici. Ma il professore era stato Sorpreso dalla Gioia, come avrebbe intitolato la propria autobiografia. Jack, con altre decine di pubblicazioni, aveva infine ricevuto una cattedra di prestigio a Cambridge, ma soprattutto aveva scoperto l’amore. A sessant’anni. E visse gli ultimi anni di vita, sino al 1963, in altalena tra l’immensa felicità di qualcosa di inaspettato e il dolore per il cancro alle ossa che prima colpì e poi stroncò la moglie, pur senza toglierle mai il sorriso.

E con Joy e Jack anche le ultime gocce d’inchiostro degli Inklings si asciugarono, non senza aver dato al mondo un senso del vero più grande e più bello.

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