Cultura e Spettacoli

La lezione di Blair alla sinistra italiana

«Non affidate a un ragazzo il lavoro di un uomo»: era, nel 1997, lo spot elettorale del Partito conservatore inglese, che cercò di fermare l’irresistibile ascesa al potere del laburista Tony Blair (nome che ricorda Orwell, l’autore de La fattoria degli animali, all’anagrafe Eric Blair). Ma il «ragazzo» vinse portando il Partito laburista a Downing Street, forte del 44 per cento dei voti (419 parlamentari) contro il 31,5 per cento (165 parlamentari) dei conservatori, che persero quasi 200 seggi. Il peggior risultato per i tory dal 1832, mentre i laburisti vincevano come neppure ai tempi migliori del labour di Attlee e Bevan, dopo molte sconfitte, cocenti soprattutto quelle ad opera di Margaret Thatcher.
Ecco ora un libro - Andrea Romano, The boy. Tony Blair e i destini della sinistra (Mondadori) -, che ricostruisce la formazione personale di Blair, e sue radici familiari (borghese, padre conservatore) e quelle culturali, che ne hanno fatto un leader mondiale, portandolo ad essere a 44 anni il più giovane primo ministro inglese dal 1812. Major, il premier conservatore clamorosamente battuto, sul tavolino dell’ingresso di Downing Street lasciò, insieme con una bottiglia di champagne, questo biglietto: «È un gran bel lavoro. Goditelo». Lezione di stile impareggiabile.
L’autore di questo libro - che non è solo una biografia - fa un’analisi intelligente e libera dei destini - come recita il sottotitolo - della sinistra europea e ovviamente anche di quella italiana, mettendole a confronto con il New Labour blairiano, che proprio quest’anno ha riportato la sua terza vittoria elettorale, pur se questa volta senza abbondanza di voti. Il fenomeno Blair, in effetti, la sinistra italiana, più che innamorarsene, come ha fatto all’inizio dei successi laburisti, dovrebbe esaminarlo meno superficialmente per arrivare a fare l’analisi spregiudicata dei propri errori. Basterebbe solo leggere qualche discorso di Blair, dove c’è una visione politica coraggiosa e lucida, come quella che nel 1997, fresco vincitore, fece dire al giovane leader a un raduno di socialisti europei a Malmoe, in Svezia: «Dobbiamo modernizzarci o moriremo».
Il successo laburista ha radici nel pensiero fortemente libero - potremmo dire persino sostanzialmente liberale - di Blair, che è riuscito a realizzare una «terza via», intermedia tra socialdemocrazia e neoliberismo. Non fu facile conquistare il consenso degli inglesi dopo gli anni di thatcherismo. Straordinariamente il giovane Blair apparve come una nuova stagione di giovinezza per la Gran Bretagna. Seppe trasmettere concetti forti, valorizzando perfino religione e famiglia. Uno dei suoi motti vincenti fu «New Britain, New Labour», fino a proclamare nei suoi discorsi: «Dobbiamo rifondare la Gran Bretagna come una società forte, dobbiamo rilanciare lo spirito di impresa: è questo l’obiettivo del nostro socialismo».
Questo è stato per nove anni il blairismo, ben lontano dalle utopie del marxismo, misurandosi tra l’altro con grande coraggio nella politica internazionale, mentre il resto della sinistra europea si rintanava nel pacifismo «no-global», espressione di pigrizia, povertà di idee, incapacità di rinnovarsi e mettersi al passo con la realtà del mondo.
«Non ho la marcia indietro... Credo che l’Irak senza Saddam sia un Paese migliore... Il terrorismo non può essere sconfitto se l’Europa e l’America non operano insieme». Sono parole ponderate, fiere, con le quali «the boy» ha sfidato serenamente l’impopolarità. E ha vinto.

Vale la pena di ripeterlo: la sinistra italiana esamini meglio il fenomeno Blair.

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