Lezione giapponese: come vincere senza il gesto dell’ombrello

Al momento mi sfugge come si dica fair-play in giapponese, ma dopo la gara fatale a Valentino Rossi ho perfettamente chiaro che cosa loro intendano con quel termine. Forse non è bellissimo, di fronte al disastro che colpisce il nostro campione più popolare, perdere tempo con queste spigolature. Ma se lo sport ha ancora un senso tutto suo, originale, inimitabile, rispetto ad altri settori della vita, quello che avviene nel box degli avversari non appena Rossi cade merita di essere rilevato, incorniciato e magari anche divulgato tra le giovani generazioni. Per la serie: gesti e simboli più educativi di tanti sermoni.
Scene da un interno giapponese. Il campionato è praticamente perso, dopo che nell'ultima gara lo sciagurato Pedrosa ha brutalmente falciato Hayden, capitano e leader del Mondiale. Più o meno, la Honda si avvia all'ultimo gran premio con l'ottimismo di chi si accoda ad un funerale. Rossi è davanti in classifica. Per di più, Rossi parte pure in pole position.
Dentro questa cornice, la caduta di Valentino. Via, siamo sinceri. Proviamo anche solo ad immaginare, invertendo le parti, che cosa accadrebbe in casa Italia. Riusciamo a vederci? Mentre Hayden lascia il suo titolo sull'asfalto, gli italiani sono tutti in piedi sopra i tavoli, ai box, certo, ma anche dentro le case e fuori dai bar, abbracciandosi l'un l'altro senza distinzione di età, di censo e di appartenenza politica. Boati di gioia, nonne scamiciate, gesti dell'ombrello, clacson a tutta. E magari qualcuno, poeticamente, che intona in coro il sempre valido «devi morire».
Loro, invece? Dal televisore appeso al soffitto dei box assistono in pochi secondi a quella che per noi sarebbe la più grande libidine di sempre, cioè l'odioso rivale a pelle di leopardo sulla pista decisiva. Siamo o non siamo gli esteti della vittoria perfetta, gol nel derby al 96', magari con un colpo di natica del terzino avversario, dopo tutta una partita giocata stabilmente nella nostra area?
Niente: di fronte a questo stupendo regalo del destino, ecco comparire sul loro volto soltanto una piega, un impercettibile movimento che potrebbe somigliare a un sorriso, benché nessuno possa assicurarlo con certezza. Tutto qui. Si guardano un attimo, alcuni sgranano gli occhi per lo stupore (mai più per la gioia), quindi continuano concentratissimi a seguire la gara. Loro freddi e insensibili, noi latini e passionali? Per favore, lasciamo stare. Non è il caso.
Intendiamoci: non è che i giapponesi siano perfetti. La loro elasticità mentale, tanto per dire, è una cosa terrificante. Però sullo stile, sulla lealtà, sul rispetto, hanno qualcosa da dire. Non solo a noi, certo. Ma soprattutto a noi. Che pur di vincere, o pur di non perdere, siamo da sempre disposti a qualunque bassezza.
Incassiamola così, allora, questa tramvata del motomondiale.

A Valentino, un titolo in più o in meno non aggiunge e non toglie nulla: questa batosta lo rende soltanto più umano, più simpatico, persino più tenero. Gli insegna anche a perdere. Quanto a noi, ringraziamo i japan per averci insegnato qualcosa di ancora più difficile del saper perdere: saper vincere.

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