Le lezioni di yoga anti stress? A Milano le paga la mutua

Tremonti evidentemente crede di vivere in un’altra nazione, su un altro pianeta. Qualcuno lo avverta che proprio qui, dove lui si ostina a fare il ministro con sanguinose manovre, esattamente in questa Italia chiamata a stringere la cinghia per non diventare Grecia, un ospedale pubblico offre al suo affezionato pubblico anche i corsi di yoga. Benché fuori dal mondo, quest’isola felicissima non sta in capo al mondo: è il Fatebenefratelli di Milano. Al paziente che soffre di ansia, crisi di panico, disturbi dell’umore, vengono garantite dieci sedute di tre ore ciascuna, più una serie di «richiami» diluiti nell’arco di sei mesi. È previsto un ticket di 230 euro, ma considerata l’entità della terapia è praticamente una cifra poco più che simbolica.
Forse è il caso di infilare subito una fondamentale avvertenza: non ho la minima intenzione di confutare l’efficacia dello yoga nella cura dell’ansia. Non ne ho i requisiti, non è questo l’argomento. Ho il massimo rispetto per lo yoga e per chi lo pratica. Ciascuno è libero di cercare il proprio equilibrio e il proprio benessere nei modi preferiti. Diritto insindacabile. Soltanto, dobbiamo chiederci: è giusto, è opportuno che questo diritto sia pagato dal sistema sanitario nazionale?
Mi sembra una domanda inevitabile, ovvia, scontata, in certi periodi. Ci stanno dicendo che dovremo sputare sangue per un bel po’. Ce lo dice e ce lo chiede Tremonti, ma non è che la Merkel e David Cameron ci vadano molto più leggeri. Il governo ha appena firmato una manovra che gronda sacrifici. Si taglia di tutto. Ne ricordo uno, restando al tema salute e assistenza: per la pensione d’invalidità - neppure 300 euro, praticamente un ticket yoga - il grado d’invalidità deve partire dall’85 per cento. Era il 74. Prime conseguenze: si prevede che non avranno più l’assegno i sordi, o chi ha un braccio amputato.
Questa la cornice ambientale, la cosiddetta congiuntura, entro cui ci troviamo a discutere di yoga. Certo l’idea di un ente pubblico che garantisce ai suoi pazienti le più amorevoli cure, i più gentili riguardi, i più sofisticati rimedi, è molto affascinante. Ci piacerebbe essere coccolati, persino viziati, nei momenti delicati delle nostre sofferenze psichiche e fisiche. In questo senso, ci sta tutto. Persino io potrei avanzare una specifica richiesta: a me la bicicletta fa benissimo, almeno quanto lo yoga, non è che pagando un ticket di 200 euro il mio ospedale mi garantisce un telaio in carbonio per curare lo stress lungo le valli dolomitiche? È scientificamente provato: dopo questo trattamento, mi sento un altro. E perché non sembri una pura questione egoistica, ho pure altri casi da segnalare. Conosco tizi che per curare ansia e tensioni del lavoro hanno bisogno di periodiche sedute con giovani specialiste, meglio dell’Est europeo. Non ho ben chiari i termini scientifici della cura, ma i risultati sembrano prodigiosi.
Paradossi? Ironia cretina? Facciamo i seri, allora. Molto seriamente, posso testimoniare che l’ippoterapia ha effetti meravigliosi su diverse forme di handicap, ma nessun ospedale italiano si sogna di riconoscerla, anche solo con una qualche forma di contributo. E vogliamo parlare delle eterne discussioni sull’omeopatia?
In linea teorica, magari parlando ai convegni in amene località turistiche, si può certamente dire che davvero non c’è nulla di scandaloso nel cercare nuove strade per la cura dei malati. Ma bisogna aggiungere subito che non è questo il momento. Non è questo il momento degli optional. Ci stiamo dilaniando, ai limiti dello scontro di piazza, per sapere se la sanità pubblica riuscirà ancora a garantirci l’aspirina. E siamo qui a pagare lo yoga. Guardiamoci negli occhi: non ce li possiamo permettere, i prodigi dello yoga. Lo capiscono tutti: non è una questione scientifica, è solo una pura questione di priorità.

Dice niente questa parola?
Chiuderei con un breve avviso ai massimi dirigenti del Fatebenefratelli: girerò tutte le loro controdeduzioni, che sicuramente presenteranno, agli italiani con un parente disteso sulla barella, lungo i corridoi unti e scrostati di tanti nostri ospedali, aspettando da giorni un letto in reparto. Vediamo se li convincono.

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