Fausto Biloslavo
da Jebel Marun (Libano)
«San Marco, San Marco, siamo fanti di marina, abbiamo la forza di spezzarvi il cuor», cantano i baschi blu italiani marciando compatti lungo la discesa che separa i due campi avanzati del contingente anfibio nel sud del Libano. Divise mimetiche, qualche pistola alla cintola, ma non in assetto di guerra, sono in gran parte ragazzi poco più che ventenni, pronti a cominciare una missione difficile in cui potrebbero trovarsi fra i due fuochi di Hezbollah e degli israeliani. Per il momento domina una calma apparente: i miliziani del partito di Allah sono invisibili e non si sentono più sfrecciare gli F16 con la stella di Davide.
I problemi però non mancano, a cominciare dai tempi necessari per far diventare il contingente di mille uomini veramente operativo. «Quelli dellOnu alle tre e mezzo del pomeriggio vanno a casa, mentre noi siamo pronti 24 ore (giorno e notte, ndr) - si lamenta un ufficiale italiano . Se dipendesse da noi manderemmo fuori i nostri ragazzi già da oggi». In questa fase iniziale gli ufficiali della vecchia missione Unifil, sul terreno dal 1978, organizzano aggiornamenti sulla situazione ai nuovi arrivati. Gli italiani dovrebbero anche uscire in ricognizione assieme ai soldati del battaglione indiano, ma per il momento lattività si limita a operazioni logistiche.
La base dove avrà sede il comando dellammiraglio Claudio Confessore è ancora una brulla collina che domina Maarakè, al centro del settore affidato agli italiani. Si gode unottima vista sul mare, ma per il momento la «base» è solo delimitata da nastri rossi e bianchi tesi dagli artificieri cinesi, che stanno bonificando larea. Si spera che già oggi possa venire a dare man forte il nucleo italiano del genio (Eod) alla ricerca di ordigni. Inoltre la stradina polverosa che porta sulla collina è troppo stretta, e alle prime piogge diventerebbe una trappola di fango. Lunico edificio è uno scheletro in muratura e il terreno dovrà essere arato dai bulldozer.
Lammiraglio Confessore non si perde danimo e sfodera ottimismo: «Lo sbarco dei mille è andato bene. Adesso penseremo ad ambientarci». Ieri i soldati italiani in Libano hanno goduto di un pasto caldo fornito dalla mensa da campo montata in tempo record. Don Marco, il cappellano dei lagunari, gira per le tende orgoglioso di ricoprire il ruolo «di fratello maggiore per questi ragazzi». Molti portano al collo la croce, ma il vero portafortuna è il patrono di Venezia, dove ha sede la caserma del Reggimento Serenissima. «Quasi tutti hanno in tasca limmaginetta di San Marco. Un modo per chiedere protezione», spiega don Marco, anche lui in divisa da lagunare, ma rigorosamente disarmato.
Ne avranno bisogno quando andranno a pattugliare posti come la «valle della morte», ribattezzata così dagli israeliani, che fin dalloccupazione del 2000 avevano subito pesanti imboscate a 5 km dalla base italiana. Un serpente di tornanti centrati dalle bombe dellultima guerra scende verso Wadi al Sluki. Ai bordi della strada si notano cingoli abbandonati dei carri israeliani, divise stracciate di morti o feriti e resti di bandiere di Amal ed Hezbollah, i due gruppi sciiti che hanno combattuto in questa zona. Non solo: ometti in pietra e frecce rosse dipinte sullasfalto indicano il pericolo di ordigni inesplosi o pezzi di granate. Alla base della valle un ex campo dellUnifil, occupato da Hezbollah, è ridotto a un cumulo di macerie. I crateri provocati dagli attacchi aerei lhanno fatto a pezzi, a parte una casamatta allingresso. Il caposaldo si trova allingresso di unaspra area collinare zeppa di caverne naturali, dove gli israeliani non sono riusciti a entrare. «Tutti sanno che le caverne sono bunker e depositi di armi di Hezbollah spiega un abitante del luogo . Ancora prima della guerra nessuno poteva avvicinarsi. Gente discreta, in abiti borghesi ti fermava rimandandoti indietro».
Ieri in unintervista fiume al giornale libanese Al Safir, il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato: «Lesercito libanese non ha lordine di disarmarci. Ci terremo i missili, ma li useremo solo per rispondere a nuove guerre degli israeliani».
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