Marcello Foa
nostro inviato a San Pietroburgo
Lo scenario è quello, splendido, del Palazzo Costantino di San Pietroburgo al calar del sole. E per un attimo il Libano sembra lontano. Per la cena informale che di fatto inaugura il vertice del G8, la cui apertura formale è prevista per questo pomeriggio, Vladimir Putin lascia la cravatta nel guardaroba, George Bush anche. Appaiono entrambi sorridenti e disinvolti. Accompagnati dalle mogli, sembrano una coppia di vecchi amici. Ma è solo un'impressione. Russia e America sono lontane come non accadeva dai tempi dell'Unione Sovietica. Divergono gli interessi strategici, divergono i giudizi sui drammatici fatti dell'attualità mediorientale, divergono i profili con cui oggi si presentano all'opinione pubblica internazionale. Gli Stati Uniti, dopo gli insuccessi in Irak, hanno abbandonato la «politica del cowboy» e sebbene il loro ruolo di superpotenza sia ancora incontrastato risultano indeboliti e molto meno credibili. La Russia, che per 15 anni è stata considerata un gigante allo sfascio, rialza improvvisamente la testa e, forte dalla ricchezza accumulata con il petrolio, il gas e le materie prime, torna a reclamare un ruolo di primo piano nel mondo.
Ieri sera Bush e Putin si sono seduti a tavola e subito hanno affrontato il tema che non era previsto e che ha stravolto l'agenda del G8: Libano e Israele. Ancora una volta Mosca e Washington sono su posizioni differenti. Il presidente americano insiste: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi. Il capo del Cremlino è all'apparenza più diplomatico: invita «tutte le parti coinvolte a interrompere i combattimenti» e auspica che i leader delle otto potenze più industrializzate possano «prendere tutte le misure necessarie per riportare la pace nella regione». Ma dietro le quinte i consiglieri russi danno una versione diversa: anche Putin ritiene «sproporzionata» la risposta di Israele. È lo stesso aggettivo usato, poco prima, dal presidente francese Jacques Chirac e dall'Unione europea; persino dal primo ministro britannico Tony Blair. Il ministro degli Affari esteri russo, Sergei Lavrov, dichiara che «il conflitto israelo-libanese si sta trasformando in una guerra che rischia di avere gravi conseguenze per il Medio Oriente e il mondo intero». E senza attendere le conclusioni del G8 decide l'invio nella regione del rappresentante speciale Sergei Yakovlev. È un gesto di forza e di autonomia, che qualcuno interpreta come il tentativo da parte di Putin di assumere la leadership delle principali potenze.
Sul Libano l'Occidente è diviso: da una parte Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, dall'altra Stati Uniti e Canada. Ma Bush non cambia idea. Prima di arrivare a San Pietroburgo, il capo della Casa Bianca parla al telefono con il presidente egiziano Hosni Mubarak, con il re di Giordania Abdullah, con il premier libanese Fouad Siniora. E quando quest'ultimo fa dire al suo portavoce che Washington è pronta a chiedere al premier israeliano Olmert di limitare le operazioni militari, la replica del portavoce della Casa Bianca, è immediata: «Bush pensa che Israele debba limitare il più possibile i danni collaterali, non solo alle infrastrutture ma anche alle persone», tuttavia «non presenterà alcuna richiesta esplicita; non prenderà decisioni militari per conto di Israele». Eppure dal G8 dovrà uscire una posizione comune e spetterà proprio a Putin trovare una soluzione di compromesso. Compito non facile per un presidente che predilige l'irruenza e le decisioni perentorie alle sottigliezze dei negoziati internazionali. Chirac, che ha accusato gli israeliani di «voler distruggere il Libano», gli ha suggerito di puntare sulla mediazione dell'Onu, Blair ha invocato il ripristino della «road map».
Il Libano non è l'unico argomento spinoso sul tavolo del G8. Gli Otto arrivano disuniti anche sulla questione del nucleare iraniano, sulla crisi con la Corea del Nord e sul tema che in origine doveva caratterizzare i colloqui, quello della sicurezza energetica. Gli Stati Uniti chiedono di poter partecipare allo sfruttamento degli immensi giacimenti russi, gli europei trattano ognuno per conto proprio gli approvvigionamenti di gas siberiano.
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