Marcello Foa
Il Libano dice no alla risoluzione dell’Onu. Ma dal Texas il segretario di
Stato Condoleezza Rice insiste: il Consiglio di Sicurezza deve votare oggi o
al più tardi domani «per dare una chance alla pace». E il Consigliere alla
Sicurezza nazionale Steve Hadley accelera: gli Stati Uniti vogliono «nel
giro di pochi giorni e non di settimane» una seconda risoluzione per l’invio
della Forza internazionale.
In realtà la Rice sa che il voto del Palazzo di Vetro è scontato: la Russia
e la Cina continuano a chiedere una cessazione immediata delle ostilità ma
non faranno storie, Blair è entusiasta. Insomma, nessuno dei cinque Paesi
con diritto di veto si opporrà e la maggior parte degli altri membri sembra
favorevole. Tuttavia, più di un osservatore si chiede a che cosa serva un
progetto di pace se uno dei contendenti non ne accetta i termini. Ecco
perché, in queste ore, l’attenzione è puntata su Beirut.
Il capo del governo Siniora ha presentato tre emendamenti: gli israeliani
devono iniziare a ritirarsi alla proclamazione del cessate il fuoco, gli
sfollati devono poter tornare subito nelle proprie case, il testo deve
essere più preciso sulle fattorie di Sheba, la cui sovranità è contesa. Il
suo ministro degli Esteri, Nouhad Mahmoud, è stato esplicito: «In questi
termini la risoluzione non è applicabile». E il presidente del Parlamento,
Nabih Berri, ha dichiarato che «tutti i libanesi respingeranno qualunque
soluzione che non rispetti il piano di pace in sette punti presentato da
Siniora». Berri è di fatto il mediatore degli Hezbollah, che già sabato
avevano bocciato l’intesa, ed è improbabile che si ricreda. Ma Washington e
Parigi, che in questi frangenti si muovono in perfetta sintonia, non
disperano di convincere il governo libanese. In effetti la bozza, pur
prevedendo lo «stretto rispetto dalle parti della sovranità e dell'integrità
territoriale dei due Paesi», non cita il ritiro dell’esercito israeliano,
considerandolo implicito. È probabile che, aggiungendo una frase esplicita
in tal senso, Beirut si dimostri più conciliante.
Eppure tutti sembrano essere consapevoli che la guerra è destinata a
continuare, a cominciare dal grande vincitore della maratona negoziale al
Palazzo di Vetro: Israele, che si è visto riconoscere il diritto
all’autodifesa in caso di violazione della tregua da parte degli Hezbollah.
«Ci vorranno settimane prima che il piano venga applicato», ha dichiarato il
vicepremier Shimon Peres, invitando l’opinione pubblica «a essere paziente».
In una serie di interviste ai media americani, la stessa Rice ha ammesso che
il voto del Consiglio di sicurezza non condurrà alla fine del conflitto
«perché queste crisi non si placano dall’oggi al domani», ma che
«rappresenta un primo passo nella giusta direzione».
Di certo per ottenere la «pace duratura» e il «nuovo assetto della regione»
promessi da Bush, bisognerà giungere a un chiarimento con i due grandi
protettori degli Hezbollah, la Siria e l’Iran, che ieri hanno reagito molto
negativamente alla bozza franco-americana. Il ministro degli Esteri di
Damasco, Walid Muallem, arrivato a Beirut per partecipare alla riunione
della Lega Araba, ha dichiarato che «la risoluzione delle Nazioni Unite
rischia di condurre il Libano alla guerra civile». E poi, provocatoriamente:
«Benvenuti nel conflitto regionale». A Teheran il segretario del Consiglio
supremo della Sicurezza nazionale, Ali Larijani, l’ha definita «ingiusta
perché favorisce gli israeliani a spese della popolazione sciita». Ad
esempio «chiede la liberazione immediata dei due soldati israeliani, ma
prevede che i prigionieri libanesi siano liberati solo alla fine dei
negoziati sotto la supervisione dell’Onu».
Assad e Ahmadinejad non mollano, dunque. E a Washington ci si chiede se non
si debba aprire canali di dialogo diretti. Non con l’Iran, ovviamente, tanto
più che la questione del nucleare, ora passata in secondo piano, non è
affato risolta, ma con la Siria sì.
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