Un Paese immobile. È la fotografia dell’Italia scattata dall’Istituto Bruno Leoni (Ibl), o meglio delle Italie, perché in realtà «ne esistono due, una poco liberalizzata e un’altra che non lo è per nulla», come le ha definite il presidente dell’istituto, Alberto Mingardi, presentando a un convegno l’indice delle Liberalizzazioni 2011. Un indicatore - aggiornato per la quarta volta dall’introduzione nel 2007 - che valuta il grado di apertura in 16 settori dell’economia italiana confrontandoli coi Paesi più liberalizzati d’Europa.
«L’unico indice stabile che non ci piace resti tale», come l’ha definito il deputato del Pdl Giorgio Stracquadanio, quest’anno si è fermato a 49 punti. Un punto percentuale sopra il livello del 2010, praticamente calma piatta: un numero che esprime meglio di tante parole la difficoltà del Paese a procedere sulla strada delle riforme per la crescita.
Entrando nel dettaglio, il mercato elettrico è, come già negli anni passati, quello che ha fatto meglio (72 per cento, in crescita di un punto sul 2010), seguito da servizi finanziari (69 per cento, in crescita di 5 punti principalmente per la contrazione delle attività finanziarie nel parametro di riferimento elvetico) mentre la televisione è scesa di tre punti, attestandosi al 62 per cento, a causa del maggior dinamismo osservato nel benchmark spagnolo. Tra i settori peggiori il trasporto ferroviario (36%), in arretramento di cinque punti a causa delle nuove restrizioni ai contratti nel trasporto regionale: rappresenta quindi il fanalino di coda, insieme ai servizi autostradali (28%) e a quelli idrici (19%). Modesti progressi si sono osservati nel fisco (56% contro 54, dovuto soprattutto al peggioramento del benchmark britannico) e nel trasporto aereo (62 per cento). Nessuna variazione per mercato del lavoro (60 per cento) e ordini professionali (47 per cento). In crescita invece i servizi postali, passati da 41 a 47 per cento, grazie soprattutto al recepimento della terza direttiva postale, che ha stabilito, dallo scorso gennaio, la completa liberalizzazione del mercato del recapito in tutti i Paesi dell’Unione europea.
Ma non basta ancora a scuotere l’inerzia, che, per i ricercatori, resta la parola chiave per definire la situazione del nostro Paese. «I pochi cambiamenti - commenta Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Ibl e curatore dell’Indice delle liberalizzazioni - quando non sono dovuti a miglioramenti o peggioramenti nei Paesi di riferimento, dipendono o dal consueto pungolo esterno europeo, come nel caso del recepimento della terza direttiva postale, oppure da colpi di reni monopolistici, come per i trasporti ferroviari». Il dato su cui ci si dovrebbe concentrare, in un momento in cui la mancata crescita italiana è in assoluto la questione più urgente da affrontare, non è insomma il 49 per cento di liberalizzazione: è il 51 per cento di non-liberalizzazione, cioè la somma di ostacoli, rendite e mancate opportunità che ingessano il Paese. «È assolutamente inderogabile un serio e ampio intervento di rimozione delle barriere all’ingresso sul mercato. Entro tale processo deve collocarsi un grande piano di privatizzazioni, per far venire meno lo status privilegiato di alcune imprese, tipicamente gli incumbent (l’operatore dominante di un mercato). Privatizzare è prima di tutto uno strumento per creare concorrenza», ha concluso.
Ma a volte quella per la privatizzazione è «la battaglia di Davide contro Golia» come l’ha definita Luca Palermo, ad di Tnt Post - il primo operatore privato di servizi postali in Italia, - chiedendo di poter operare a parità di condizioni con Poste Italiane nei servizi alle imprese: «Sui nostri servizi si applica l’Iva - ha spiegato - mentre su quelli di Poste Italiane no, in virtù dello status di servizi universali».
Una battaglia che va combattuta anche dal punto di vista culturale, superando le asimmetrie informative, sintetizzate da Stracquadanio in una battuta: «Gli italiani votano sì all’abrogazione della legge sulla liberalizzazione dei servizi idrici, ma poi comprano acqua minerale».
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