Vent’anni di giustizia milanese sono passati nella sua stanza: storie di processi grandi e piccoli, confidenze di avvocati famosi e di giovani praticanti. Adesso la storia d’amore tra Alberta Turati, milanesona doc, e il Palazzo di giustizia è finita. E, come a volte accade, è finita nel peggiore dei modi. Un divorzio tutt’altro che consensuale. Da una parte lei, «la Alberta» come da quattro lustri tutti la chiamano. Dall’altra la Camera penale di Milano, l’organismo che raggruppa i penalisti milanesi. Per vent’anni la Alberta ha lavorato per loro. Ora è stata licenziata ma non si arrende. E si prepara a trascinare in giudizio gli avvocati.
L’ufficio dell’Alberta - più esattamente, della Camera penale: ma per vent’anni le due cose hanno coinciso - è in un punto nevralgico del tribunale. Terzo piano, quella specie di stoà su cui si affacciano le aule delle Corti d’assise e delle Corti d’appello. Tra una udienza e l’altra, gli avvocati passano da lì a lasciare la toga o a farsene prestare una, a cercare un codice, a fissare un appuntamento, a ragionare con i colleghi, a fare due chiacchiere. L’ufficio è una base indispensabile, un centro operativo. Dal 1989 l’Alberta regnava sul monolocale. «Mi aveva assunto - racconta - Michele Saponara, che allora era presidente della Camera penale. Mi disse: ci hanno dato una stanza, occupati tu di farla funzionare. Sono entrata che non c’erano neanche le sedie».
Sul perché la storia sia finita le versioni, fino a un certo punto, convergono: «Ho 68 anni, è chiaro che non potevo stare lì in eterno», dice la Alberta. «I tempi cambiano - dicono alla Camera penale - quando è arrivata lei eravamo in cento iscritti, oggi siamo in settecento. Ed esistono i computer e internet». Le ricostruzioni si biforcano quando si parla delle modalità del licenziamento. «Abbiamo fatto il possibile per una via d’uscita indolore», dicono gli avvocati. «Mi hanno licenziato in tronco con una lettera sgradevolissima», dice la Alberta. Che aggiunge un dettaglio che, se confermato, risulterebbe sorprendente: «Mi hanno fatto lavorare in nero per tutti questi anni. Certo, mi davano i soldi per pagarmi da sola i contributi volontari. Ma è chiaro che la copertura assicurativa non è la stessa».
Al posto dell’Alberta è già arrivata una ragazza che ha mezzo secolo meno di lei, e che si dà del tu con i computer.
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