Lievi: tutta la vita in un trilocale All’Elfo ecco la condizione umana

Il direttore del Centro Teatrale Bresciano firma «Fotografia di una stanza»

Lievi: tutta la vita in un trilocale All’Elfo ecco la condizione umana

Enrico Groppali

Nel celebre film di Fritz Lang Dietro la porta chiusa l’architetto psicopatico Michael Redgrave torturava a morte la fresca sposa Joan Bennett mostrandole una serie di stanze che riproducevano con esattezza maniacale il teatro di efferati delitti passati alla storia del crimine. Oggi invece Cesare Lievi, il giovane e dinamico direttore del Centro Teatrale Bresciano, presenta all’Elfo dal 23 al 30 gennaio Fotografia di una stanza, la sua ultima pièce che, nella sua regia, ha già fatto il giro dei palcoscenici di casa nostra con gran successo di pubblico e critica.
Viene quindi spontaneo chiedergli se nell’immaginare questa parabola della condizione umana dove, a detta di chi ha visto lo spettacolo, la stanza del titolo si tramuta di continuo tutt’uno alla psicologia dei decoratori che sovrintendono alla sua scrupolosa messa a punto si è mai ispirato a quell’illustre referente cinematografico. Ma Lievi, nonostante sia un germanista di fama che conosce a menadito le opere del famoso cineasta, smentisce con l’abituale franchezza.
Ma allora - gli chiediamo - cosa accade o, meglio ancora, non accade nella stanza che noi, abitanti della platea, siamo ansiosi di ammirare?
«Lo spettacolo - confida sorridendo questo squisito sommelier del teatro, - presenta in realtà tre ipotesi, insieme uguali e diverse, di un unico ambiente. La prima stanza è infatti un luogo ancora in fieri dove i due tappezzieri chiamati ad addobbarla, un italiano di nome Giuseppe e un extracomunitario chiamato Dragosch, si confrontano in un duello verbale senza esclusione di colpi».
Su cosa verte il loro contendere?
«Per rispondere a questa domanda che il pubblico non potrà fare a meno di porsi, bisogna innanzi tutto chiedersi chi siano Giuseppe e Dragosch. Sono le ombre degli antichi Vladimiro ed Estragone di Beckett o i fantasmi degli sconsolati eroi di Witkiewicz? Sono due clown che s’interrogano sul senso della vita e della morte? Sono due filosofi nichilisti? O magari sono semplicemente un italiano ben radicato nel suo habitat e uno straniero che ha perso ogni nozione della sua patria e del suo autentico status?»
Non lo so... Me lo dica lei.
«Posso solo dirle che quei due entrano in un luogo in cui nessuno si riconosce più, una terra di nessuno assolutamente aliena nonostante il più anziano dei due tenti di conferirgli un’identità decorando l’ambiente con le foto di tutte le stanze che ha tappezzato in vita sua».
E poi cosa succede?
«Nella scena numero due, la stanza diviene la camera da letto della padrona di casa che si crogiola tra le lenzuola cullata dallo scroscio della doccia che, fuori scena, si concede Dragosch. Che forse spera di violentarla o forse semplicemente desidera fare all’amore con lei».
Vero o falso?
«Né l’uno né l’altro. Perché i due decoratori Stefano Santospago e Alessandro Averone come la signora di Carla Chiarelli sono proiezioni, desideri, impulsi legati all’indecifrabilità del reale, che vivono nell'ambiguità».


Un’ultima domanda: come si colloca questa «Fotografia» nella drammaturgia di Lievi?
«È una tappa essenziale del mio percorso che da Fratelli d’estate agli Infiniti punti di un segmento continua inesorabile a scavare nel labirinto della psiche e dei gesti».

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