Chi oggi si lamenta delle fake news che infestano Internet, dovrebbe farsi un giro in quel circo anarchico e colorato che è il mondo del rum. Un continente a sé, talmente sregolato da far sembrare il Web severo come un codice della strada svizzero. Per secoli l'essenza naïf dei distillati di canna da zucchero è stata la loro forza: ai Caraibi le norme sono relative, imposizioni coloniali mal tollerate. E di riflesso perfino in Italia negli anni '50 e '60 si potevano trovare bottiglie con etichette evocative come «Rum Fantasia» o «Rum Creolo» a base di alcol di barbabietola, «essenza di botte» e spezie. Rum: zero.
Oggi le cose sono un po' migliorate, ma il rigore è ancora lontano. Finalmente però anche il mondo del rum sembra non poterne più della giungla di furbizie in cui è finito. E si sta organizzando per combattere i suoi stessi fake. Con questo spirito è nata la «Pure Single Rum Association», una joint venture di produttori convinti che l'autenticità e la trasparenza siano valori aggiunti e che il rum vada distillato in maniera tradizionale. Melassa o succo di canna, pot-still o alambicco a colonna, ma senza procedimenti industriali né trucchetti.
A raccogliere i «guardiani del rum» - sorprendentemente solo per chi non lo conosce è un italiano: Luca Gargano, anima di Velier, azienda genovese di importatori e selezionatori di splendidi nettari alcolici. Lui, un po' avventuriero e un po' guru, ha scoperto il mito Caroni (la distilleria di Trinidad chiusa e ora vera cornucopia di gemme liquide), è stato premiato come Hombre del Ron 2014, ha compilato un «Atlante del rum» mitologico e ha ideato una nuova classificazione dei rum che superasse quella legata al colore (white, gold, dark) e quella delle regioni di produzione (inglese, francese e spagnola). Di fatto, è il rum in jeans, giacca e scarpe da ginnastica.
L'idea rivoluzionaria di Gargano, che da decenni promuove un ritorno all'autenticità del passato anche nel vino, è semplice: se il 95% della produzione è fatta da «carnival rum» leggeri, distillati industrialmente in colonne multiple come la vodka e destinati alla miscelazione, occorre proteggere quel 5% che ancora si ostina a produrre artigianalmente. Occorre una sorta di disciplinare che segua la filosofia dell'AOC Martinique, l'unico rum «doc» al mondo, e che funzioni come un WWF per salvare dall'estinzione l'ortodossia dei produttori vecchia maniera.
All'iniziativa presentata a Milano durante l'ultimo Velier Day hanno aderito produttori giamaicani come Christelle Harris di Hampden Estate e Gordon Clarke di Worthy Park, Richard Seale di Foursquare (Barbados), produttori di rhum agricole come Marc Sassier di Saint James e Gregory Neisson dell'omonima azienda in Martinica, nonché Gianni Vittorio Capovilla, l'italiano che sull'isola di Marie Galante ha inventato Rhum Rhum. Un dream team destinato a crescere, perché per chi punta ai «single rum», dove le materie prime sono tracciate, le etichette trasparenti e gli aromi estranei vietati, oggi è un inferno. Glicerina, vanillina, cannella sono doping diffuso e accettato. Sono finzioni, additivi che alterano dolcezza e complessità. L'idea della Pure Rum Association non è certo vietarli, ma prendere un'altra strada. Chi li usa può continuare a farlo, ma sia costretto a dirlo. E soprattutto gli sia impedito di usare il termine che dovrà contraddistinguere i distillati di canna più nobili, quelli che potranno competere con i single malt e i cognac: i «Pure single rum».
Perché in fondo, come dice sorridendo Ian Burrell, pittoresco ambasciatore del rum nel mondo, «chi ha un buon rum non ha bisogno di aromi, e i consumatori vogliono buon rum, integrità e trasparenza».
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