Non ce l’ha fatta a portarsi a casa il premio la mini serie di cortometraggi intitolata "Beirut 6.07" . La statuetta degli International Emmy Awards nella categoria “short series” è andata alla Nuova Zelanda con “Inside” ma "Beirut 6.07" ha ottenuto visibilità e questo era quello che i produttori speravano di più.
6.07 l’ultimo minuto di pace prima dell’inferno: la deflagrazione e la vita si arresta, un fermo immagine che cristallizza scene di distruzione apocalittica, e di morte. Cinquemila feriti, 154 morti, 1000 persone ospedalizzate. E non è una fiction. E’ la fotografia senza filtri di Beirut che nel giorno del 4 agosto del 2020 mostra il suo volto sfigurato.
Tutto comincia con un (apparente) piccolo incendio che subitamente si rivela nella sua catastrofica portata. Una doppia deflagrazione che ha origine nel magazzino del porto sventra e devasta parte della città travolgendo palazzi, case, ma anche alberi, imbarcazioni, auto, animali, esseri umani. Tutto. Per effetto dello scoppio, un’onda gigante si leva dal mare e raggiunge i piani alti degli edifici. Saltano vetri come schegge, volano i mobili in mille pezzi. Chi si trova nella propria abitazione viene scaraventato con violenza contro le pareti.
I vecchi buchi, (cicatrici di 15 anni di guerra civile dal 1975 al 1990) ancora visibili sulle facciate di alcune costruzioni rimaste in piedi, appaiono ora la parte più sana di quella Beirut che sembra essere stata inghiottita dalla polvere e dai detriti. Migliaia di tonnellate di ammonio nitrato ,una sostanza chimica altamente infiammabile usata per produrre fertilizzanti (e bombe), abbandonata a deteriorare per 6 anni nell’hangar numero 12 prende fuoco, insieme a taniche di benzina e perfino fuochi d’artificio.
Una doppia esplosione più potente di quella di Chernobyl.
E questo è anche il set di 6.07, perché è da qui che 15 registi libanesi hanno deciso di partire per raccontare, con 15 storie di brevissima durata (dai 6 agli 8 minuti) quel pomeriggio di distruzione.
Ogni artista porta il suo sguardo personale su questo dramma ispirandosi a personaggi reali. Alcuni protagonisti interpretano il loro ruolo, altri invece quello dei loro cari che sono venuti a mancare
Tutti coloro che direttamente ed indirettamente sono stati toccati dal dramma hanno partecipato come volontari e non hanno percepito alcun compenso. Solo la troupe cinematografica è stata stipendiata.
I pompieri, una sposa, una giovane cameriera, un bambino, destini spezzati e uniti dalla data del 4 agosto 2020. Tutte storie
da raccontare per omaggiare i protagonisti.
Il regista Alain Sauma intitola il suo cortometraggio the Lucky Ones (Quelli fortunati). Racconta due destini paralleli: una madre la cui una figlia è in attesa della donazione di un organo e una madre il cui figlio è appena morto nell’ospedale distrutto dall’esplosione.”Chi ha perduto propri cari ha avuto fortuna, dice una donna, perché avrebbe potuto perdere l’intera famiglia”.
Il regista si è chiesto se fosse il caso di mettere tutto in scena a così poca distanza dalla tragedia ma il bisogno di raccontare era forte e ” ironicamente” -dice- “il solo punto positivo che sono riuscito a trovare è che c’è comunque la vita e qualcuno che ha ricevuto un cuore, un rene”.
Lucien Bourjeily invece dirige “Mira” che racconta di una giovane cameriera nel suo ultimo giorno di vita, e della sua preoccupazione per un futuro che un Libano in crisi non poteva più darle. Il regista afferma che anche il suo cortometraggio è lì per ricordare “la corruzione politica” e un evento che non dovrà mai più accadere.
Secondo Aurélien Colly, giornalista inviato in Libano di Radio France, una parte del pubblico libanese non ha accolto con favore questa serie. É stata definita “marketing del disastro”, si è lamentata una rappresentazione prematura.
Due mesi dalla la tragedia sono parsi troppo pochi per raccontare il dolore, proprio sul luogo dell’esplosione in un setting assolutamente reale, sfigurato dal tragico evento, dove “il sangue non si era ancora asciugato”, come spiega Mazen Fayad, promotore del progetto.
Che poi spiega :“quando il sangue non si è ancora asciugato, le cose sono ancora esatte e chiare, le emozioni sono intense, era quello ( il messaggio, ndr) che volevamo far passare per rendere omaggio alle vittime, perché diventano dei numeri e invece no, sono delle vite che non si sono perse nel vento e che qualcuno commemora. In Libano abbiamo la tendenza a riscrivere la storia per servire interessi politici, è meglio scrivere la storia in maniera fattuale e nessuno può raccontare meglio la storia di coloro che sono sopravvissuti ed hanno compreso cosa è successo”.
Una serie che non è né sensazionalista né voyeurista ma sofferma con sensibilità il suo sguardo sulla dolorosa tragedia.
Questa serie secondo Colly però ha assunto un valore politico. Le inchieste che avrebbero dovuto far luce sulle responsabilità non sono avanzate ad un anno e mezzo dalla tragedia e il tema è diventato una sfida politica: i partiti sono divisi e il giudice incaricato per le indagini fa pressione, minaccia e fa ostruzione su certi partiti perché li vorrebbe sentire.
Nel mese di ottobre delle manifestazioni organizzate contro il giudice sono degenerate, si è dovuti ricorrere alla forza, come durante la guerra civile e il governo è paralizzato perché i ministri minacciano le dimissioni se il giudice non verrà sollevato dall’incarico.
La rabbia pubblica in Libano si è concentrata sulla negligenza delle autorità che erano al corrente del potenziale pericolo rappresentato dalle 2750 tonnellate di nitrato di ammonio .
Una bomba sulla quale Beirut ha dormito per 6 anni.
Esistono documenti (alcuni postati e visibili al pubblico dal legislatore Salim Aoun sul suo account di twitter come riporta il New York Times il 5 agosto del 2020) che attestano che ufficiali della dogana dal 2014 al 2017 per almeno 6 volte scrissero alla Corte del Libano per avere indicazioni su come disporre di questo materiale evidenziando il pericolo di lasciarlo esposto a temperature altissime e richiedendo di esportarlo immediatamente.
Secondo il regista Mazen Fayad dar vita a questo progetto era un obbligo, come migliaia di altre persone anche lui ha perso casa e ufficio nello scoppio.
“Usciamo tutti con grande
dolore da questa storia” .”Questo film è la mia terapia”, dice il regista.Che difende la sua opera la cui funzione principale è quella di denunciare la corruzione e la negligenza di chi sapeva e ha taciuto.
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