nostro inviato a Reggio Emilia
Ci sarebbe questo, ci sarebbe che Ligabue il 16 luglio tornerà a Campovolo per il concertone 2.0, la rivincita, la dimostrazione che nel 2005 quel megashow nello stesso posto è andato così così (c’erano problemi di audio belli grossi) solo per l’entusiasmo di chi ingenuamente pensava che più ce n’è meglio è e non per malizia o cattiveria menefreghista. «O mi piacciono le sfide oppure mi piacciono le sfighe», dice lui quasi per esorcizzare l’impresa, qui in un ristorantino a pochi passi da Campovolo. Per farla breve, oggi iniziano le prevendite dell’eventone su ticketone.it e stasera dalle 21 in quasi 200 cinema andrà in onda il Ligabue Day (elenco su nexodigital.it) con le riprese inedite dell’ultimo tour negli stadi, venti minuti di chiacchiera solitaria di Ligabue e pure l’anteprima del videoclip de Il meglio deve ancora venire, girato con Isabella Ragonese perché «me l’ha consigliata il regista Marco Salom e mi piaceva l’idea che un’attrice vera recitasse in un video con me». Ecco, ci sarebbe tutto questo, che è decisamente la notizia di giornata. Ma c’è anche che Ligabue, un rockettaro tutto d’un pezzo che ha appena festeggiato i 51 anni in un bell’hotel in Place des Vosges a Parigi a due passi dalla casa di Victor Hugo, quartiere Marais, è definitivamente il cosiddetto paradigma sublimante. Vabbé, detto così è ostico. In realtà è la dimostrazione che anche un signor cantautore come lui, ventun anni di carriera, milioni di dischi venduti, una fama che neanche il più scettico può mettere in discussione, oggi o c’è sempre oppure rischia di non esserci più, è vittima della bulimia obbligatoria cui il mercato obbliga tutti pena la scomparsa definitiva. Lui, neanche a farlo apposta, ha iniziato subito, per carattere e per quella voglia indefinita di rincorrere che prende sempre chi debutta tardi (il suo primo successo, Balliamo sul mondo, è del 1990 quando lui aveva 30 anni): «Fosse per me non smetterei mai. E la mia compagna ha preso, come si dice, il pacchetto completo. Io sono così. O incido o scrivo o soprattutto canto dal vivo, in qualsiasi posto. Se sono in teatro, mi muovo di meno. Se sono in uno stadio, mi muovo di più. Non sono un buongustaio: faccio tutto quello che mi viene in mente. Penso un’idea e, se qualcuno non riesce a convincermi che è sbagliata, bene. Altrimenti la realizzo, come Campovolo 2.0, dove suonerò con tutte le band che mi hanno accompagnato in questi venti anni». Il palco è «a specchio», c’è un megaschermo di 600 metri, dicesi seicento, e gli spettatori saranno come minimo centomila, stavolta tutti soddisfatti o simbolicamente rimborsati. «L’altra volta, durante il primo concerto di Campovolo, mi hanno rubato in casa. Stavolta metto un allarme migliore», scherza. E così, mentre alza un bicchiere di lambrusco (molto buono) proprio alla vecchia maniera emiliana, con il gomito rigido piazzato a mezz’aria, divaga tra i talent show («Vista la crisi, meglio quelli di nulla») e la Libia («La mia parola definitiva è sempre nella canzone Il mio nome è mai più»), conferma che è «in forma e sono in forma anche quelli che lavorano con me», mentre qui e là aleggia il nome di Vasco (ma basta, lui stesso ha detto che «fanno mestieri diversi») e il suo promoter Ferdinando Salzano di F&P Group annuncia che, se negli States i concerti dal vivo hanno fruttato nel 2010 almeno il dieci per cento in meno, Ligabue negli stadi ha contabilizzato il 30 per cento in più quasi a confermare che sì, la bulimia alla fine ripaga. Anzi, per chi non è Ligabue, è quasi indispensabile. «Se fossi insonne, scriverei anche un altro libro solo che a) bisogna avere cose da dire b) ci vuole tempo c) avrei bisogno anche di avere la necessaria freddezza per ragionarci sopra». Quando parla, a Ligabue piace scartare, cambiare discorso, portare le parole dove più gli piace, cioè la musica. Ad esempio: «Fosse stato per me, Certe notti non sarebbe mai diventato un singolo». Oppure: «Mi piacerà sentire il suono diverso che arriverà da ciascuna delle mie band».
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