Cultura e Spettacoli

LILLONI Il dolore dietro la luce

La vita difficile del massimo esponente del Chiarismo

Umberto Lilloni è uno di quegli artisti che sembra di conoscere, ma di cui in realtà si sa poco, e quel poco magari è sbagliato. Quello che si sa è presto detto. Lilloni è stato uno dei protagonisti del chiarismo lombardo, cioè di quel movimento, raccolto a Milano negli anni Trenta intorno al critico Edoardo Persico, che si stacca dal «Novecento» sironiano perseguendo i valori della luce invece di quelli volumetrici. L’uso dei colori chiari, a cui allude il nome, è una conseguenza della loro poetica, ma non fondamentale. Se fosse solo per i colori chiari, dovrebbe essere chiarista anche Campigli. Il fatto è che Lilloni e compagni usavano toni tendenti al pallido (tanto che a volte, per ottenere gli effetti desiderati, dipingevano su una base di bianco ancora umido) per allentare i volumi nella luce. Nascevano così immagini lievi, un po’ incerte, quasi senza peso, che suggerivano un’idea di precarietà.
In arte, si sa, lo stile non è mai una questione di stile. La forma non è mai un fatto formale. Dietro le immagini leggere e approssimative dei chiaristi c’era una visione dell’uomo che non era quella, drammatica ma potente, di Sironi. C’era, insomma, un sentimento di provvisorietà, di labilità, che si potrebbe definire neo-romantico quanto quello novecentista era stato classicheggiante o, se vogliamo, neo-classico.
Lilloni è uno dei maggiori interpreti di quel clima espressivo. La sua ricerca, in particolare, è influenzata dall’arte orientale. Nel 1933 si era tenuta a Milano una grande mostra sulla pittura cinese, mentre poco prima si era aperta nei musei cittadini una sezione dedicata all’Oriente. Il segno volatile, immateriale, di certi maestri zen, mescolandosi con la lezione degli impressionisti, lascia una traccia profonda su Lilloni, che «scrive» molti suoi quadri con una grafia quasi incorporea, tessendo una trama di segni brevi come virgole, delicati come fili d’erba. La sua è una pittura sognante, lirica, in cui alberi, prati e case hanno l’aspetto impalpabile di un’apparizione. Non per niente il suo amico e compagno di strada De Rocchi definiva affettuosamente «lillini» certi suoi quadri, per indicare la voluta fragilità delle loro linee.
Che a una vena tanto poetica e stupefatta corrispondesse una vita ben poco trasognata, non solo per la lunga povertà, drammaticamente segnata dalla passione patriottica e civile, invece non si sapeva. È una scoperta che si deve agli studi più recenti, soprattutto all’amorosa biografia redatta dalla persona che per vincoli d’affetto è stata la più vicina all’artista, vale a dire sua figlia Renata. L’utile ricostruzione biografica era stata pubblicata nel catalogo generale di Lilloni (2002), ottimamente curato da Rossana Bossaglia, che però, per mole e costo, aveva raggiunto solo gli specialisti. Oggi invece, in occasione dell’apertura del Museo Lilloni a Romagnano Sesia (un museo piccolo ma luminoso, che sarebbe piaciuto all’artista), il saggio viene ripubblicato nel più agile catalogo della mostra inaugurale «Lilloni in Piemonte»: una rassegna dedicata al periodo da lui trascorso a Bardonecchia negli anni Cinquanta, aperta fino al 26 marzo.
Milanese, di modesta famiglia artigiana, Lilloni si entusiasma giovanissimo per il socialismo di Corridoni e diviene un interventista. Nel 1917 è richiamato alle armi. La disfatta di Caporetto lo trova in ospedale, in gravi condizioni, ma deve ugualmente affrontare la ritirata, a piedi, per non cadere in mano agli austriaci. L’anno successivo è testimone di un episodio terribile, il cui ricordo lo perseguiterà tutta la vita. Nell’ottobre 1918, durante l’avanzata finale che si concluderà a Vittorio Veneto, si trova coi suoi compagni a Nervesa, sul Piave. Un gruppetto di soldati riesce ad attraversare il fiume, ma rimane isolato sulla sponda nemica: è sera, le acque del fiume sono gonfie e in tumulto, e il resto del drappello non ce la fa a passare. Per tutta la notte Lilloni li sente chiamare aiuto, sempre più debolmente, senza poter far nulla. Poi, il silenzio. La mattina, quando tutto il reparto riesce finalmente a raggiungere l’altra sponda, li trovano senza vita. Erano stati massacrati a colpi di mazza ferrata.
Le altre vicende dell’artista sono comuni a molti della sua generazione. Dopo la guerra si avvicina al fascismo e già nel 1921 prende la tessera. Non aderisce invece alla Repubblica Sociale, anzi è contrario all’intervento in guerra, ma questo non gli impedisce, dopo il 25 aprile, di essere condannato a morte. Si salva, ma viene sottoposto a due umilianti processi di epurazione e per tanti anni è emarginato, dimenticato. La povertà intanto non lo abbandona: a un raduno a Bardonecchia, per citare un dato del periodo illustrato dalla mostra, arriva vestito come a Milano. Qualcuno si meraviglia: non sa che l’artista non ha i soldi per un abbigliamento più adeguato.
Dietro i volti e i paesaggi trasognati di Lilloni, dunque, c’è una vita che è stata tutt’altro che un sogno. E forse il segreto del suo lirismo, mai frivolo o sentimentale, sta proprio nella durezza della sua esperienza. L’arte, per lui, non è la vita com’è, ma come vorremmo che fosse.
LA MOSTRA
Lilloni in Piemonte
Museo Lilloni, Romagnano Sesia.


Fino al 26 marzo 2006.

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