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L'infanzia criminale. "La galera? Mi è servita"

Viaggio nel carcere minorile Beccaria a Milano. "Qui la realtà non è quella della serie Mare Fuori"

L'infanzia criminale. "La galera? Mi è servita"

La cosa peggiore? «Il cibo. Però qui non è che ci hanno invitato loro. Ci siamo invitati da soli». Il ragazzo è rasato, i muscoli che guizzano sotto la maglietta. Nel cortile polveroso del carcere, sfaccenda insieme a un coetaneo intorno agli attrezzi da giardiniere. Dieci del mattino di un giorno qualunque, nella sfilza di giorni tutti uguali che dà la prigione. Il Beccaria, il carcere minorile di Milano, non fa eccezione. A tutte le latitudini, a tutte le età, dare un senso al tempo è la sfida dell'istituzione carcere. Lo è di più qui dentro, dove arriva la prima risacca del disagio e del degrado della metropoli, e dove costruire una ipotesi di futuro per il «dopo» è l'unica chance per non ritrovare gli stessi ragazzi tra qualche anno a San Vittore o a Opera, transitati senza soluzione di continuità dal reato occasionale al mestiere di delinquere. Per questo serve imparare a fare andare le mani, a cucinare, a curare un prato. «Ma soprattutto mi serve imparare a parlare», dice K., senza alzare gli occhi dal bancone dove cabla interruttori per ascensori.

Parlare, comunicare, interagire. É anche questo che è mancato fuori. La incapacità di relazioni reali ne ha fatto dei fragili: «Sono dei fragili - racconta chi lavora dentro il carcere - e la loro impulsività, la loro aggressività, è l'altra faccia della fragilità». Accadono cose terribili, come il ragazzo arrivato con i barconi dalla Libia, finito qui in cella e torturato e abusato in agosto da tre coetanei. E cose insensate, come i sette che a Natale evadono senza troppo sforzo e poi fuori non sanno cosa fare, due di loro si ripresentano al portone blindato per riconsegnarsi al carcere, gli altri vengono inevitabilmente ripresi. «L'impulsività, l'incapacità di affrontare le minime contrarietà, è sempre pronta a esplodere». E su questo mix aleggia la solita domanda: a cosa serve, tutto questo carcere? Dissuasione, vendetta, recupero?

«A me la galera è servita, se no sarei ancora fuori a fare il coglione - dice R. - la galera è il male, ma dal male io ricavo il bene. Quello che facevo fuori è tutta colpa mia, il contesto sociale non c'entra». Accanto a lui, M: «Fuori ci sono la libertà, la ragazza, gli amici. Te ne rendi conto quando sei qui dentro. E impari anche a riconoscere i veri amici». Qual è la cosa peggiore? «La cosa peggiore l'ho già fatta».

É un piccolo mondo, il Beccaria di oggi. Tre quarti di carcere sono chiusi per lavori, riapriranno forse a luglio. Ventuno posti di capienza ufficiale, venticinque detenuti: sold out, non ci sono più letti, gli altri minorenni arrestati a Milano vengono spediti qua e là. Dei venticinque del Beccaria venti sono stranieri o italiani di seconda generazione. Come si convive tra etnie diverse? «Io sono italiano: ma meglio gli stranieri di certi italiani».

Non ci sono ragazze: il «femminile» più vicino è a Pontremoli, se una minorenne viene arrestata a Milano la spediscono lì, a duecento chilometri di distanza. Al Beccaria gli agenti non hanno divisa, con i ragazzi si danno del tu, l'unica a dare e ricevere il lei" è il direttore. Reato prevalente: la rapina aggravata. Comune denominatore: droga alle spalle, pesante o pesantissima, quasi per tutti. Quando si legge sui giornali di rivolte, di materassi incendiati, a innescare la rabbia è quasi sempre la richiesta di farmaci.

Se questo è il flusso in qualche modo inevitabile di quanto accade fuori, l'approdo di una metropoli dove viene arrestato un minorenne al giorno e dove le comunità di accoglienza rimbalzano o sono sature, ad aggravare il tutto ci sono le assurdità del sistema. C'è un principio apparentemente sensato: chi ha commesso un reato quando era minorenne può scontarlo qui anche se è maggiorenne, fino al compimento dei venticinque anni. La conseguenza concreta è che detenuti che sono poco più che bambini - a oggi, il detenuto più giovane del Beccaria ha appena quattordici anni e mezzo ed è appena entrato - convivono con uomini fatti. Alcuni di loro tra il reato e la condanna hanno commesso altri reati, sono stati a San Vittore tra gli adulti, poi sono tornati al Beccaria a espiare la vecchia pena: ma si sono portati dietro l'esperienza, la cultura e i modi del carcere per adulti. Qui hanno fatto da scuola, che è proprio ciò che andrebbe impedito.

La convivenza tra età diversa ha anche aspetti positivi. Mentre lavora in falegnameria P., che ha ventitré anni racconta: «Con i ragazzini cerco di rapportarmi, di spiegare come si vive in carcere, di fargli capire che accumulare denunce e rapporti disciplinari non è una bella idea». Anche la storia di P., a ben vedere, è una storia assurda: «La mia infanzia era da criminale, sono entrato qui a diciassette anni. Dopo un anno sono uscito, da allora non ho più commesso neanche un reato, per cinque anni ho fatto il regolare. Adesso la mia condanna è diventata definitiva e mi hanno riportato qui a scontarla. Purtroppo c'è qualche giudice che vive ancora nel suo mondo, e se non ci creiamo problemi da soli ci pensa lui a crearli».

Entrate al Beccaria, e dimenticatevi Mare fuori, la serie tv sul carcere minorile. Qui l'hanno vista tutti, e tutti concordano: «Magari il carcere fosse quello, sempre in giro, a fare quello che si vuole, a picchiarsi tutti i giorni, a uscire in taxi. Ci sono persino le ragazze». Qui è tutto più semplice, più noioso, più brutto. G. ha i baffi alla Clark Gable, diciannove anni, sul dorso delle mani già il tatuaggio con i cinque punti della malavita: «D'altronde quella è una serie televisiva, non la realtà. La realtà è dura».

Fuori c'è una città che produce disagio, gli ultimi dati dicono che a Milano diecimila adolescenti sono in carico ai servizi sociali, e da lì al Beccaria il passo a volte è breve. Da una realtà dove quasi tutto è permesso si approda dove quasi nulla lo è; dalla vita attaccata allo smartphone si entra in un universo parallelo dove ogni telefono è vietato, e per ascoltare musica ci si affida alle chiavette infilate nel televisore. «Eppure - dice M. mentre prepara le orecchiette nel laboratorio di cucina - anche se è brutto dirlo sento che il carcere mi è servito, mi ha dato chance che prima non avevo». H. ha diciassette anni, ha appena finito la lezione di matematica: «Fuori ho fatto degli sbagli, ma dovevo farli per forza perché non avevo niente, nessuna compagnia, non avevo da vestirmi o da fumare. Oggi sento di saper usare di più la testa».

Tutti uguali, tutti diversi, i ragazzi del Beccaria: l'abulico, lo sbruffone, il cupo. A dispetto di tutto sopravvive l'allegria incontenibile dell'adolescenza, la passione per la battutaccia, la sfida a calciobalilla con il giornalista e il fotografo, la playstation, e Povero gabbiano del cantante neomelodico Gianni Celeste a fare da colonna sonora delle pene d'amore reali e immaginarie. Ma la scorza del buonumore è sottile, e basta una parola sbagliata, una domanda inattesa a farli rabbuiare di colpo.

Venti giorni fa il Garante comunale dei detenuti, Francesco Maisto, ha avuto parole pesanti per il Beccaria, «i ragazzi che sono in isolamento pranzano col piatto sulle ginocchia». Dal carcere gli hanno risposto che i tavoli ci sono, e che quello visitato da Maisto è solo un reparto di transito. Ma - tavoli o non tavoli - tutti sanno che il problema vero è il dopo, e la vera domanda da fare ai venticinque del Beccaria è: hai un progetto, per quando sarai fuori di qui? C'è chi vuole fare il barbiere, il pasticcere, il rugbista.

«Ma il mio vero progetto è non tornare qui dentro».

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