La fatwa petrolifera, per ora, ha colpito solo Gran Bretagna e Francia. Colpevoli di essere state in prima fila, a fine gennaio, nel far decidere all’Unione europea il blocco dell’acquisto dell’oro nero di Teheran fino alla prossima estate e lo stop alle operazioni finanziarie della Banca centrale iraniana. Ma se il Paese medio-orientale decidesse di estendere il divieto di esportare il proprio greggio ad altri Paesi per l’Italia sarebbero probabilmente guai. Il nostro Paese copre, infatti, il 13% del proprio fabbisogno con il greggio iraniano, in base alle stime dell’Agenzia internazionale dell’energia: ciò significa che ogni giorno 180mila barili provenienti dal Paese medio-orientale transitano per la penisola. Non pochi, se solo si pensa che l’intera Unione europea importa circa 450mila barili. Insieme con la Spagna, siamo il primo fruitore dell’olio estratto in quella che una volta si chiamava Persia.
Se l’embargo scatterà, occorrerà coprire un buco. L’Arabia Saudita si è già offerta di colmarlo, ma resta la preoccupazione per le probabili ripercussioni sulle quotazioni del greggio, peraltro già in forte tensione (venerdì il Brent ha superato i 120 dollari il barile). Anche dando per scontato che Teheran non darà seguito alla minaccia di bloccare lo Stretto di Hormuz, da cui passa il 20% della produzione mondiale (per l’Iran equivarrebbe a un harakiri, visto che tutte le esportazioni subirebbero un blocco), il Fondo monetario aveva stimato prezzi del greggio in risalita fino a 150 dollari in seguito alla decisione di Bruxelles di non acquistare più petrolio dall’Iran a partire dal prossimo luglio.
Se l’oro nero dovesse toccare quel picco, l’economia mondiale subirebbe un danno significativo. Si calcola, infatti, che per ogni 10 dollari di aumento dei prezzi petroliferi, il pil si contrae di uno 0,5%. Trenta dollari di rincaro si tradurrebbero, dunque, in un appesantimento di un punto e mezzo percentuale. Un «taglio» che un Paese come l’Italia, già condannata quest’anno alla recessione, certo non si può permettere. Anche perché l’effetto di trasmissione dal petrolio surriscaldato ai carburanti è quasi immediato.
Un’escalation del greggio porterebbe senza dubbio la benzina a scavalcare la soglia dei 2 euro al litro. Con ricadute altrettanto immediate sull’inflazione, alimentata non solo dai carburanti, ma anche dai generi alimentari, per lo più trasportati su gomma.
Italia a parte, la partita che si gioca a livello internazionale è comunque molto complessa, e investe i delicati equilibri all’interno dell’Opec, il cartello dei principali Paesi produttori di petrolio. Mancano ancora quattro mesi al meeting dei Signori del greggio, ma la battaglia per la successione del libico Abdullah al-Badri è già aperta.
E, siccome tale poltrona è lo specchio degli equilibri geopolitici del cartello petrolifero, dall’esito di questo scontro si potrà avere una indicazione del mercato energetico dei prossimi anni. Sullo sfondo, ma fondamentale, resta inoltre il nodo Cina.
L’idea dominante è che il gigante asiatico sia pronto ad acquistare tutto il greggio in circolazione per sostenere la sua impetuosa crescita. E l’annuncio sul possibile accordo con l’Iran per assorbire altri 500mila barili al giorno sembra confermare questa tesi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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