Il giorno della protesta contro «l’eversione», la «tirannide», la «scomparsa della democrazia» - e l’elenco degli insulti sarebbe interminabile - è stato il giorno nero della sinistra italiana. Dal mattino presto hanno montato un crescendo di contestazioni contro il presidente Giorgio Napolitano e il decreto legge del governo. Hanno scaricato ogni sorta di accuse contro le istituzioni, chiamando alla mobilitazione popolare. Invece a metà pomeriggio la sinistra si è ritrovata fuori gioco, con il Colle che ha difeso dalla prima all’ultima parola il decreto incriminato, senza limitarsi a un semplice avallo istituzionale (come anche qualcuno nel centrodestra aveva interpretato la firma di Napolitano) ma riconoscendo che lo strumento d’urgenza era l’unico possibile e il testo non presentava vizi di incostituzionalità. Volevano lo scontro con Silvio Berlusconi, si sono ritrovati a capitolare al cospetto del Quirinale.
L’offensiva più violenta è stata scatenata da Antonio Di Pietro. Nel suo tour elettorale ha urlato in continuazione di «impeachment» per il Colle, di «insurrezione democratica e popolare», di «chiamata alle armi democratica», di lotta contro «Benito Berlusconi». I suoi scherani non sono stati da meno. L’europarlamentare Luigi De Magistris ha paragonato il premier a Pinochet, Leoluca Orlando voleva denunciare Napolitano per attentato alla Costituzione, Massimo Donadi ha sfondato il muro del ridicolo chiedendo che «Berlusconi spieghi le minacce di scatenare la piazza» dopo che l’Idv non aveva fatto altro che invocare piazzate.
Di Pietro non è nuovo a questi assalti al Colle. Stavolta si è trascinato appresso in blocco il Pd, cioè il partito di Napolitano. «Io e Bersani ci sentiamo tutti i giorni più volte al giorno», ha detto Tonino durante un comizio lasciando intendere che la decisione di sfoderare le baionette era stata presa assieme. Infatti Bersani ha aspettato la puntualizzazione del Colle prima di prendere un minimo di distanze, ma soltanto un po’: «Lasciamo fuori Napolitano», tre paroline deboli deboli mormorate mentre il Quirinale difendeva formalmente il decreto.
Ma ormai la Caporetto della sinistra in difesa di elezioni senza il Pdl era consumata. Di notte aveva cominciato il «popolo viola» con un sit-in sotto Palazzo Chigi. Poi si sono rotti gli argini. Paolo Ferrero, numero uno di Rifondazione comunista: «Scempio di diritti civili e democratici». Il Pdci: «Napolitano non è più garanzia». Vittorio Agnoletto si è sdraiato sulla strada davanti alla prefettura di Milano bloccando il traffico. Il verde Angelo Bonelli si è dichiarato «prigioniero politico». Emma Bonino, in stile Tafazzi, ha minacciato di ritirare le candidature radicali. Perfino Pier Ferdinando Casini si è lanciato in un’intemerata: «I cittadini devono fare la fila per un concorso pubblico e devono rispettare le regole, i partiti no». Sai quante file ha fatto in vita sua il leader Udc.
In casa Pd hanno perso la testa, e non è una metafora visto che Bersani si è messo al guinzaglio di Di Pietro. Per Anna Finocchiaro «siamo arrivati al limite, non ci stiamo a farci prendere in giro dall’irresponsabilità politica e istituzionale del governo». Massimo D’Alema ha tuonato contro «l’atto arrogante senza precedenti, una ferita difficile da sanare nei rapporti politici». Dario Franceschini voleva scendere «subito in piazza contro il decreto che calpesta le regole senza vergogna». Piero Fassino ha condannato «una repubblica fondata sul colpo di spugna». Un comunicato del centrosinistra ha annunciato un calendario di manifestazioni, tra cui spiccava quella di sabato prossimo, giorno successivo allo sciopero generale indetto dalla Cgil: un bel fine settimana di caos.
La confusione è arrivata al culmine quando un comunicato intimidatorio dei capigruppo Pd alle Camere ha minacciato «immediate conseguenze sul nostro atteggiamento parlamentare»: una salita sull’Aventino contro la quale si è pronunciato perfino Bersani («con l’Aventino non abbiamo mai risolto niente»).
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