Lite tra i ministri sul Mose. Di Pietro batte i rossoverdi

Ferrero, Bianchi, Pecoraro e due ds contrari alle dighe mobili. Ma ai voti vince l’ex pm: i lavori proseguono. E il governatore Galan (Fi) esulta

Stefano Filippi

Da una parte la sinistra radicale, dall’altra il resto della maggioranza: così, diviso e lacerato, con una spaccatura che approfondisce il solco tra le due anime sempre più lontane del centrosinistra, il governo Prodi ha detto sì al Mose, il sistema di dighe mobili per proteggere Venezia dall’acqua alta. Non è ancora l’ultima parola sulla vicenda, magari il voto di ieri del Consiglio dei ministri farà la fine della Finanziaria, che ogni ora cambia volto.
Ma il punto di partenza è stabilito: l’unico modo per difendere la Serenissima dalle maree è quello di continuare a costruire le tre barriere fluttuanti alle bocche della laguna. E con questa decisione il governo si presenterà la prossima volta che si riunirà il Comitatone, l’organismo che raggruppa tutti gli enti che si occupano della salvaguardia di Venezia e che dovrebbe sancire la fine del tormentone-Mose.
Lo stop alle dighe mobili, la cui costruzione è cominciata sotto il governo Berlusconi dopo una gestazione lunga una quindicina d’anni, è una delle bandiere di Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi. E, a Venezia, del sindaco Massimo Cacciari e dei centri sociali. Appena reinsediato, il primo cittadino aveva subito chiesto al governo di rivedere il progetto e riprendere in considerazione una serie di ipotesi alternative al Mose, scartate - a suo giudizio - senza motivo. Un’inversione di marcia rispetto alla posizione del sindaco precedente, Paolo Costa, ex ministro di osservanza prodiana. La sinistra riformista, infatti, è sempre stata favorevole all’opera a cominciare da Romano Prodi, che da presidente dell’Unione europea ha facilitato la concessione dei nulla osta di Bruxelles.
Il ripensamento imposto da Cacciari doveva portare anche a un blocco dei lavori in attesa di valutazioni. Ieri invece il governo ha premuto sull’acceleratore. Il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, ha presentato al Consiglio dei ministri una relazione in cui si analizzano tutte le soluzioni possibili. Un lungo elenco preparato dal Comune di Venezia: bracci a traliccio, dighe omeodinamiche a gestione evoluta, dighe in gomma, navi-porta, più una serie di altri studi. Tutte idee «che fanno riferimento a tipologie di paratoie già scartate nel 1981», si legge nel rapporto firmato dall’ex magistrato: 21 pagine ricche di dati e foto nelle quali si dà conto dei pareri «di chi aveva titolo e competenze per esaminare le alternative» (cioè Consiglio superiore dei lavori pubblici, magistrato alle acque, quattro ministeri, Regione Veneto).
In definitiva, scrive Di Pietro, «non sono emersi elementi nuovi tali da richiedere la modifica delle opere del sistema Mose, né d’altra parte è accettabile un’interruzione delle attività in corso per eventuali ulteriori approfondimenti». Una posizione netta, su cui si è acceso un vivace botta e risposta fra Di Pietro, Alfonso Pecoraro Scanio e Paolo Ferrero, i quali hanno elencato raffiche di sprechi e presunti «interessi affaristici».
La crepa si è allargata, i due schieramenti si sono allontanati nonostante Prodi e il sottosegretario Enrico Letta abbiano tentato di evitare strappi. Ma nel governo le posizioni restavano insanabili, impossibile arrivare a una sintesi unitaria. E per uscirne, in modo da non arrivare al Comitatone in ordine sparso, non c’era che un sistema: far votare i ministri.

Il voto ha certificato la frattura interna: Ferrero (Rifondazione), Pecoraro Scanio (Verdi) e Mussi (sinistra Ds) contrari; Bianchi (comunisti italiani) e Damiano (Ds ex Cgil) astenuti; a favore gli altri 20 presenti. Rifondazione e Verdi sono infuriati, parlano di «scelta grave» e di «rottura sul programma», mentre piovono gli applausi del centrodestra, in testa il governatore veneto Galan.

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