Livermore esalta un «Don Giovanni» pieno di erotismo

Alberto Cantù

da Genova

«Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste». Così il Commendatore, con la sua voce dall’oltretomba, ammonisce Don Giovanni, che gli ha stuprato (forse) o posseduto o chissà cosa la figlia Donn’Anna, lo ha ucciso in duello e, nel cimitero, ha invitato a cena, con irriducibile protervia, quella «statua funebre del Commendatore» in cui il mito del «dissoluto punito» (e mai pentito) ha dato corpo drammatico a un defunto.
Don Giovanni appunto: l’opera che ha inaugurato al meglio, ieri l’altro, con molti applausi e qualche dissenso per la regia, la stagione del Carlo Felice di Genova e che prelude all’overdose mozartiana del 2006 (250 anni dalla nascita) da cui ci salveremo in pochi. Un Don Giovanni dove il «cibo mortale» del banchetto non ha proprio nulla da spartire col Commendatore. Niente fagiani e al posto loro, col vino che scorre a fiumi, il cibo prediletto dal libertino spagnolo: una mensa erotica con belle ragazze che scoprono i seni e fanno all’amore, fanciulle procaci di cui si riempie la bocca anche un Leporello, servo ben poco dissimile dal suo padrone.
È una delle strepitose idee del regista torinese Davide Livermore, forte di esperienze da cantante e regista, direttore artistico e autore televisivo. Capace, con disegni e costumi di Botto & Bruno (Accademia di Belle Arti di Torino), con le luci fondamentali di Maurizio Montobbio e le scene di Santi Centineo, di «ripensare» in modo non tradizionale, ma drammaturgicamente efficacissimo un’opera che pone tanti problemi di allestimento. Troviamo serio e buffo, notte cupa e ironia lieve. C’è un neoclassico che si riflette negli abiti e nei modi ingessati dei personaggi «alti»: Donn’Anna, Don Ottavio e una Donna Elvira che è la parodia della promessa sposa eternamente illusa (che si moltiplichi in tante Donne Elvire con valigetta e necessaire è trovata meno felice). C’è un Don Giovanni che Livermore costruisce sulla prestanza fisica del basso Erwin Schrott facendone una figura di giovinastro palestrato e dark che viene dai bassi (compare e scompare come Leporello attraverso botole), è violento e sadico, bello e dannato dietro gli occhiali scuri: capace di sedurre, da amante di lungo corso, con splendide mezze voci e una dizione - lui, uruguaiano - davvero impeccabile. Un Don Giovanni che seduce e violenta davanti a squallidi muri pieni di graffiti, di manifesti con donne, forse, scomparse, fra luci livide o sanguinolente, abbaglianti o da siparietto teatrale. Quando Donn’Anna - Svetla Vassileva, voce piccola che fa di necessità virtù - racconta la notte col suo seduttore, il pudore di quanto dice è contraddetto da una coppia di mimi che fanno all’amore: gli egregi Enrico Dusio e Sax Nicosia.
Anche musicalmente questo genovese è un Don Giovanni «al maschile». Eccellente, come dicevamo, Schrott per frasi ben vibrate, accenti schietti, sfumature e pianissimi. Eccellente pure Nicola Ulivieri (Leporello) per voce ricca, ben timbrata, sana nei fiati lunghi. Una bella rivelazione, il venticinquenne, genovese, Francesco Meli, tenore di cui si parlerà molto, e una conferma Alex Esposito (Masetto). Quanto a Ilya Bannik, ecco un Commendatore che finalmente canta e non borbotta.
Molto (troppo) educata la direzione di Julia Jones: e il mondo sinfonico della partitura non esce. Al di sotto della bisogna anche Ildiko Kamlasi, pallida e malferma Donna Elvira.

Gradevole la Zerlina di Marina Comparato. Quando le maestranze parlano di tagli del Fondo con personale e spettacoli a rischio, alcuni dissentono buttandola in politica, altri plaudono o replicano irati. Una gazzarra francamente imbarazzante.

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