Pil. Come Pessima immagine londinese. Lo sappiamo, certo, che «Pil», sta per «Prodotto interno lordo». Ma quando il Prodotto interno lordo, indicatore della salute di un Paese - in questo caso l’Italia -, supera quello di uno spocchioso Paese - in questo caso l’Inghilterra - delle lezioncine e delle facili ironie, allora anche l’acronimo deve necessariamente cambiare. E la verità, quella dei numeri annunciati ieri dal presidente del Consiglio, con il conforto dei riscontri Ocse, deve giustamente scacciare la perfidia, l’accanimento ingiurioso di questi anni e rimandarli al mittente.
E adesso, come la mettiamo? Adesso che nella classifica di quelli bravi precediamo i gran saputelli del Regno Unito, come faranno di colleghi d’Oltremanica a rimboccarsi le maniche per scrivere e raccontare, una volta tanto, la vera verità? Certo sarà dura per loro, da stamane. E, francamente, non li invidiamo. Dovranno ammettere che siamo meglio noi di loro e dovranno anche ammettere che Silvio Berlusconi non è poi così «inadatto a governare» come scriveva già nel 2001 l’Economist dando la stura ad una serie di virulenti attacchi dei media britannici che, da allora, non si sono certo diradati. Ancora alla vigilia del G8 dell’Aquila il Guardian si domandava «se l’Italia, dopo un decennio di deriva economica, ora risponda ai requisiti di base per sedersi a qualsiasi tavolo internazionale, considerato che i politici italiani sono meno affidabili di quelli di Pakistan, Bielorussia, Azerbaigian, Senegal e Sierra Leone». Ricordate come è andato quel G8? Ricordate l’ammirazione, le attestazioni di stima dei potenti del mondo verso l’Italia e Berlusconi?
Eppure i colleghi del Guardian avevano e hanno provato più volte a demolire il Cavaliere: «Se si svolgesse un concorso per scegliere il politico più sessista d’Europa - recitava un indimenticabile editoriale del quotidiano britannico - senza dubbio vincerebbe Silvio Berlusconi». Quanto al consenso del premier, nello stesso, memorabile, editoriale si leggeva: «Il successo di Berlusconi è il prodotto, più che la causa, del crollo del sistema politico dell’Italia, un crollo che ha fatalmente indebolito sia la sinistra che il centro, lasciando campo libero agli opportunisti e agli xenofobi». Fantastico, no? Pensate che addirittura una columnist dell’Observer si augurava, poco tempo fa, che qualcuno «facesse al presidente del Consiglio italiano una iniezione di bromuro per toglierlo dalla scena» aggiungendo che «in termini politici e libidinosi, si potrebbe considerare come un’eutanasia». Fortuna che il Sunday Times, spiando dal buco della serratura Berlusconi, gli dedicava un ampio articolo, intitolato «Nonno Silvio è impotente», basato su dichiarazioni di Virginia Sanjust. Che stile! Veramente british.
Ebbene, forse da oggi in poi, i professorini, targati Uk, dovranno cominciare a rendersi conto che la loro patria non è più quella di tredici anni fa, quando il popolare settimanale americano Newsweek la incoronò con una copertina storica dal titolo «London rules», ovvero è «l’Inghilterra che detta le regole» al mondo. Allora l’Inghilterra guardava schifata il resto del pianeta sfottendo l’euro per vantarsi della sua forte sterlina e raccoglieva i frutti di quindici anni di rivoluzione thatcheriana, costruita con l’esaltazione del libero mercato, gli sgravi fiscali e la netta contrapposizione allo strapotere dei sindacati. Ma oggi quell’Inghilterra è soltanto un pallido ricordo perché l’Inghilterra di oggi è quella dello scandalo dell’abuso di rimborsi pubblici da parte dei parlamentari britannici. Rimborsi utilizzati per scopi personali con spese false per ottenere più soldi dallo Stato, affitti o mutui per seconde case, e con due Lord laburisti accusati di aver chiesto denaro in cambio del sì ad alcuni emendamenti a una legge in discussione. Una vicenda che non solo ha incrinato la credibilità del «modello Westminster» ma ha sconcertato l’opinione pubblica già provata dalla grave recessione che ha colpito la Gran Bretagna nell’ultimo anno.
Una crisi che non tocca solo il Partito laburista che, essendo al governo, ha le più grosse responsabilità, ma colpisce l’intera classe politica inglese. Perché l’Inghilterra di oggi è quella che ha 647mila disoccupati in più rispetto al 2008 (contro i duecentomila dell’Italia).
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