Politica

Londra sotto attacco, 56 minuti di morte

Guido Mattioni

All’Odio, alla Follia e al loro degno figlio, il Terrorismo, non occorre molto tempo. A volte gli basta un attimo, atroce e distruttivo. Altre volte, come ieri a Londra, ci mettono solo un po’ di più: 56 minuti, dalle 9.51 (ora italiana, quando a Londra erano le 8.51) alle 10.47 del mattino. Cinquantasei minuti per portare nel cuore della City, con uno stillicidio di quattro esplosioni in successione, la morte, lo strazio e la paura. Cinquantasei minuti sufficienti a riaccendere in Inghilterra, come nel resto del mondo, l’incubo degli attentati.
Forse, scendendo nel ventre della metropolitana, quell’incubo l’avevano rimosso come tutte le mattine, dall’11 settembre 2001, con un fatalismo ormai divenuto d’obbligo, anche i londinesi che ieri viaggiavano sul treno diretto alla stazione di Liverpool Street: il solito sapore del solito frettoloso caffè ancora in bocca, gli inevitabili commenti sull’assegnazione alla città delle Olimpiadi del 2012, un pensiero dolce rivolto ai figli lasciati a casa, uno agro al capufficio con cui dover passare le prossime otto ore...
E all’improvviso il lampo e il boato, che interrompono vite, straziano corpi, gelano i pensieri dolci così come quelli agri. Quindi il fumo, le grida, i lamenti. Ai servizi di emergenza l’allarme arriva quasi in contemporanea. Ma con una prima prudente versione che attribuisce lo scoppio a un non meglio precisato «corto circuito». Versione che continua a resistere, ma meno convinta e convincente, anche dopo la notizia di una seconda esplosione, alle 9.56, tra le stazioni di King’s Cross e Russell Square. E versione che inizia a incrinarsi dopo l’ennesimo allarme lanciato dalla stazione di Edgware Road dove, ore 10.17, si verifica una terza esplosione.
È a quel punto, mentre scatta la macchina del soccorso civile e uno dopo l’altro vengono chiusi dalla polizia tutti gli accessi al gigantesco dedalo del «Tube» londinese - 400 chilometri di binari, 274 stazioni su 12 linee in esercizio per tre milioni di utilizzatori giornalieri - che l’ipotesi elettrica si spegne definitivamente. Una comunicazione ufficiale della National Grid, la società che fornisce l’energia alla metropolitana - «non abbiamo registrato anomalie nel sistema» - è la conferma che per Londra, come paventato dalle autorità dall’indomani dell’attentato alle due Torri di New York, è arrivato «quel» giorno: è sotto attacco terroristico.
La conferma definitiva, inequivocabile, «libanese» nella sua atrocità visiva, piomba alle 10.47 sulla città paralizzata, sui cittadini che escono feriti dalle stazioni del metrò, sugli infermieri che li assistono, sui poliziotti che bloccano le strade, sui vigili del fuoco che emergono dalle gallerie nere di fumo e sui passanti intontiti e increduli che cercano disperatamente di chiamare casa con i cellulari ormai impazziti. Sono passati appunto 56 minuti dal primo scoppio, quando un autobus della linea 30, uno di quelli tradizionali londinesi, rossi e a due piani, esplode in Upper Woburn Place aprendosi come una lattina, eruttando pezzi di lamiera, frammenti di vetro e brandelli di corpi umani.
E mentre dal St. Mary’s Hospital, così come da tutti gli altri maggiori nosocomi cittadini cominciano ad arrivare i bollettini medici che allungano attimo dopo attimo l’elenco delle vittime e dei feriti, alle 13 in punto è la «voce» e il «volto» di Downing Street, del governo, a ribadire ciò che tutti ormai già sanno. «È ragionevolmente chiaro - dice rivolto al Paese (e al mondo) un teso e contratto Tony Blair - che c’è stata una serie di attacchi terroristici a Londra».
Alle 14.01, su un sito Internet, compare il nome che tutti hanno ormai già sulla bocca - Al Qaida - con la sua prosa folle: «La Gran Bretagna sta ora bruciando con paura, terrore e panico», si legge nel comunicato che riserva minacce anche all’Italia. Un delirio al quale reagisce immediatamente, alle 14.05, il primo ministro inglese, con un messaggio duro e determinato rivolto ai «portatori di morte». Aggiunge che raggiungerà Londra in elicottero (dove arriva alle 16.40), per prendere direttamente visione dell’accaduto. Poi, annuncia, «ritornerò a Gleneagles», in Scozia, «perché il G8 deve andare avanti».
Alle 16, in una città impaurita ma composta, dove la gente obbedisce disciplinatamente alla raccomandazione delle autorità di rimanere in casa, o cerca con rassegnazione di farvi ritorno a piedi, vengono riaperte le prime tre stazioni della metropolitana: Victoria, Euston e Paddington. Una decisione che dimostra da un lato l’efficienza della macchina dei soccorsi e che dall’altro serve a riportare alla normalità la capitale ferita e frastornata.
Alle 16.05 Scotland Yard crea una linea telefonica diretta per avere informazioni sulle centinaia di feriti ospitati negli ospedali della città e poco dopo, alle 16.25, in una conferenza stampa, annuncia che «non c’è più nessuno sotto terra». Ovvero, precisa il portavoce della polizia di Sua Maestà, sono stati raccolti i morti e ricoverati i feriti. Non solo: sono stati evacuati dai tunnel delle linee metropolitane tutti i passeggeri che vi erano rimasti bloccati, molti al buio e quasi sempre senza possibilità di ricevere o dare notizie. E parte la caccia agli assassini.

«Una strage con il marchio di Al Qaida» è l’analisi del ministro degli Esteri Jack Straw.

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