Politica

Londra vince le Olimpiadi 2012

Ambizioso lo è sempre stato. Quando fu eletto primo ministro nel 1997 Tony Blair dichiarò: «Non mi sono messo in politica per cambiare il Partito laburista. Sono sceso in campo per cambiare il Paese». Pragmatico anche: che alla Casa Bianca ci fosse il democratico Clinton o il repubblicano Bush, ha sempre coltivato il rapporto privilegiato con Washington, consapevole che «se l’America è esclusa dalla soluzione di un problema, non c’è soluzione». Fortunato non sempre: la decisione di appoggiare l’intervento militare americano in Irak è stata pagata con un tracollo della popolarità e, nel maggio scorso, con una vittoria alle elezioni che, sebbene storica - Blair ha ottenuto il terzo mandato consecutivo -, è risultata molto più sofferta del previsto.
Sembrava un compleanno amaro, quello festeggiato lo scorso 6 maggio, all’indomani del voto: a soli 52 anni vedeva davanti a sé la prospettiva, tutt’altro che remota, di uscire di scena. I giornali inglesi lo davano per finito, i bookmakers accettavano scommesse sulla data in cui avrebbe ceduto la guida del governo al suo amico-rivale di sempre, il cancelliere allo Scacchiere Gordon Brown. E invece sono bastati due mesi, due mesi esatti, per portare a compimento una trasformazione strabiliante. Altro che dimesso, altro che in declino. Il Blair che ieri sera ha accolto i capi di Stato e di governo del G8 in Scozia non era solo in gran forma e comprensibilmente raggiante per essere riuscito a convincere il Comitato Olimpico ad attribuire a Londra i Giochi del 2012, battendo, una volta ancora, Chirac e Parigi. Era un leader diverso rispetto a quello conosciuto finora. In un’Europa che da sempre lamenta l’assenza di figure di spicco, oggi Blair può legittimamente proporsi come statista di riferimento. E non solo perché a contendergli la scena è uno Chirac ormai privo di qualunque credibilità.
Da maggio ad oggi Blair ha dimostrato di possedere due requisiti indispensabili per un politico di successo. Il primo: saper trasformare in opportunità gli insuccessi. Dopo la vittoria del no in Francia e Olanda sulla Costituzione Ue, aveva annunciato la sospensione del referendum in Gran Bretagna nella primavera 2005, venendo accusato di voler affondare la nuova Europa. Al summit Ue di Bruxelles aveva mandato all’aria il compromesso sul bilancio Ue e i giornali lo hanno biasimato parlando di «giorno più nero per l’Europa», ma poi nel suo discorso programmatico al Parlamento europeo ha strappato applausi a scena aperta - anche tra i deputati francesi e tedeschi - delineando un’Europa moderna, dinamica, imperniata sulla ricerca e non sulla difesa di interessi corporativi obsoleti, come quelli agricoli. E ancora una volta il confronto a distanza con il «brontosauro» Chirac ha giocato a suo favore.
La seconda qualità è la fermezza. Tony Blair, che dopo l’11 settembre è stato accusato, di essere un alleato remissivo di Bush, sta dimostrando, proprio in queste ore al G8, che non bisogna sempre e solo dire sì all’America, ma che, come capita tra alleati veri, è possibile costringere l’America a cambiare idea. Bush ha sempre mostrato scarsa attenzione ai problemi dell’Africa, ma grazie al pressing britannico ha accettato la riduzione parziale del debito e nuovi programmi di assistenza. La Casa Bianca fino a oggi si è sempre mostrata molto prudente, se non apertamente scettica, sull’effetto serra, sostenendo che la scienza non era ancora giunta a conclusioni certe. Proprio ieri Bush ha riconosciuto che il riscaldamento del pianeta è provocato in parte dall’attività umana e pur continuando a rifiutare il Trattato di Kyoto, ha evidenziato la necessità di puntare sulle fonti alternative al greggio e al gas. Per un petroliere non è un’ammissione da poco. E il merito è tutto di Blair, che può permettersi di alzare la testa, mentre Chirac, da un paio d’anni, è costretto ad abbassarla di fronte al presidente americano.
E ancora: al G8 di Genova Blair aveva bollato come estremisti i «no global». Ora a Edimburgo, grazie alla mediazione di Geldof e di Bono, se li è fatti amici, a esclusione, ben inteso, dei soliti teppisti «black bloc». Lo slogan degli otto Grandi è uguale a quello dei manifestanti anti-sistema: «Make poverty history» (Archiviamo la povertà). Non era mai accaduto prima.
Un Blair capace di superare le barriere ideologiche sia a destra sia a sinistra. E di costruire nuove alleanze: con la conservatrice Angela Merkel, che a settembre diventerà, salvo sorprese, il nuovo cancelliere tedesco. Con il gollista Nicolas Sarkozy, che nel 2007 prenderà il posto di Chirac. Persino con il socialista spagnolo Zapatero, che si sta riposizionando con intelligenza sulla scena internazionale. E, ovviamente, con Berlusconi, come accade regolarmente dal 2001. Un’Europa trainata da cinque motori: è questo il progetto che ha in mente Blair. Cinque come i cerchi Olimpici di Londra 2012. Cinque, il suo numero fortunato.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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