Li immaginiamo curvati sulle scrivanie come monaci benedettini, la redazione tipo scriptorium medioevale dove i giornalisti del Papa vergano articolesse severe, ispezionate e mondate da chissà quale autorità ecclesiastica, in un clima generale di rigore senza slanci. Inveceno, ci sbagliamo. Da quelle parti, dietro le mura del Vaticano, filtrano in abbondanza le luci del mondo più pop, la chincaglieria mondana della società dei consumi trova lì osservatori attentissimi, lì dalle parti dell’Osservatore Romano, una volta impenetrabile opificio del pensiero vaticano sui grandi temietico-politico-religiosi, oggi (anche) giornale di polemiche pop tendenti al rock, quotidiano interventista sugli “eventi” di spettacolo, sui film campioni di incassi, sulle star, sui megaconcerti, sulle canzonette, sulle cifre assurde pagate dal Real Madrid per Kakà e CristianoRonaldo (ha dedicato un editoriale al calcio mercato), insomma su quel chenon ti aspetteresti dal giornale- voce della Santa Sede.
«Ma è l’Osservatore Romano o Variety?» si è chiesto qualcuno dopo che il santo quotidiano aveva speso mezza pagina per una futile questione terrena, roba di un programma Rai, un Superquark che era parso sciocco per quel suo modo «alla Dan Brown» di trattare i misteri biografici di Michelangelo Buonarroti. Attenzione però perché qui non c’entra la censura, la nuova inquisizione in vesti giornalistiche o il moralismo bacchettone pronto a puntare l’indice; qui c’è un giudizio di valore sulle cose, spesso impietoso. Per esempio, anche un’altra frivolezza come l’ultimo Sanremo è stata oggetto di attenzioni dall’Osservatore Romano, che ne ha duramente criticato l’organizzazione ma non per le battutacce, le conigliette di Playboy, i doppi sensi, i compensi troppo elevati, i vestiti scollati, la vicenda del brano anti-gay, niente di questo: per la scarsa qualità della musica.
È stato l’Osservatore romano a fare una delle stroncature più dure del Festival, ma senza accenni di perbenismo, pura critica televisiva alla fattura del prodotto e alla pochezza di musiche e parole. «Dalle Termopili a Pavese, Bonolis ce la mette tutta per garantire alla kermesse canora una vernice di alto spessore culturale, ma con risultati disarmanti» scriveva il quotid ano del Vaticano, e poi: «Rap, pop, rock, melodico, jazz, etno, va bene tutto, ma il microfono sia offerto solo a quanti ne garantiscano l’incolumità, ma non sembra che siano poi molti». Ma è l’Osservatore Romano o Rolling Stone? È un fatto culturale, si vede, anche la musica pop, e l’organo della Santa Sede se ne interessa come tale, come tratto di costume da indagare se si vuol capire cosa si muove nei cuori delle persone, il popolo della Chiesa.
Anzi i consumi di massa tipo le canzonette, la tv e il cinema diventano laboratori privilegiati per un quotidiano che ha una missione forte, «giornale quotidiano politico religioso» c’è scritto sotto la testata, a fianco del doppio motto che campeggia sull’Osservatore romano dal 1861: «Unicuique suum» («A ciascuno il suo», dove riecheggia il «Date a Cesare quel che è diCesare e a Dio quel che è Dio» di Gesù ai Farisei) e «Non praevalebunt» (ovvero: «Le porte dell’inferno non prevarranno sulla Chiesa»).
La direzione di Giovanni Maria Vian, ex editorialista di Avvenire succeduto nel 2007 a Mario Agnes (alla guida del quotidiano vaticano dal 1984) ha portato sulle pagine dell’Osservatore l’attenzione ai dibattiti e alle polemiche tipiche del quotidiano della Cei, come anche un certo taglio provocatorio già visibile su Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, e si è attrezzato per la bisogna circondandosi di firme e redattori adatti (alle pagine culturali è stata chiamata Silvia Guidi, cresciuta allascuola di Libero). Spesso con durezze inaspettate, altro che Don Abbondio. Il pianista-compositore Giovanni Allevi, quello che di sé dice «sto cambiando la musica occidentale», ebbene il riccioluto campione di vendite è per la Santa sede simile «agli spaghetti alla bolognese serviti nei ristoranti del centro con le fotografie appese fuori», un falso, una bufala, una profondità taroccata.
È sempre il critico musicale dell’Osservatore Marcello Filotei a lanciare i ldardo: il fenomeno Allevi è «costruito con cura assoluta», una «operazione di marketing» caratterizzata da una forza culturalmente pericolosa, quella di convincerci che «tutto quello che non capiamo non vale la pena di essere compreso». Chapeau, c’è lo stiletto dietro l’abito talare dell’Osservatore.
Sul fronte della critica cinematografica ilgiornale vaticano è altrettanto impertinente. Il kolossal da 200milioni di dollari La bussola d’oro della bionda Nicole Kidman (2007) «è un film che lascia freddi, perché porta in sé il freddo e la disperazione della ribellione, della solitudine e dell’individualismo». Ma è l’Osservatore romano o Ciak? Promossi invece dai giornalisti vaticani The Millionaire, film «interessantee e semplare», come anche il maghetto Harry Potter (nonostante lo scetticismo della Chiesa verso le suggestioni pseudospiritualiste delle saghe fantasy), un vero capolavoro secondo il quotidiano perché mescola sapientemente «suspense soprannaturale e romanticismo». La svolta è proseguita con il recupero di un personaggio «cinico e cattivo» come Dr. House, il medico anti-buonista che però malgrado il suo «urlato ateismo» riesce ad avere una sua «strana morale» per cui devia «dal coro del politically correct che propaganda solitudine e disimpegno», «non è mai scontato ma propone sempre un itinerario eticamente buono».
Una volta introdotto in Vaticano un tipo come Dr. House non meraviglia che l’Osservatore Romano trovi anche nell’esteta e scrittore gay Oscar Wilde le tracce di «un cammino verso quella “terra promessa” che dà il senso all’esistere».
Terra promessa che l’Osservatore Romano ha rivisto anche nelle chitarre di Bruce Springsteen, il cui concerto di luglio a Roma è stato celebrato dal quotidiano vaticano nientemeno che come «rock allo stato puro». E vai. Fede, eucarestia e rock and roll.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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