nostro inviato a Oropa
Italia e Danimarca, un giorno agli antipodi del ciclismo. O forse, senza tante prudenze, agli estremi antipodi dell'umanità. Qui da noi la riscossa dei semplici, con l'allevatore di asini Marzio Bruseghin che vince la sua prima tappa rosa proprio ai piedi della Beata Vergine di Oropa. Nostra Signora, sicuramente, avrà un sorriso per questo suo figlio diletto, che al ciclismo e alla vita ha dato tutto, chiedendo sempre pochissimo: un buon contratto, un angolo di mondo dove accudire somari, una bella famiglia e qualche amico sincero. La sua faccia da contadino espone già le prime rughe, ma anche occhi sinceri come l'età del candore. In questa Hiroshima del doping, Bruseghin non deve abbassare lo sguardo: se mai, potrebbe alzare la voce, chiedendo qualche scusa e persino qualche risarcimento, a quelli che barando hanno recitato da campioni, facendolo sentire gregario. Ma non sarà così. Non è da Bruseghin. Nessuna nube tossica riuscirà a inquinare la giornata più bella. Per un secondo appena, proprio lui che è uomo da tempi lunghi ed eterna pazienza, batte tutti nella cronoscalata riservata agli arrampicatori. Dovendo spiegare il segreto, rivela solo un modesto consiglio del suo vecchio amico Marco: «Sua nonna mi ha mandato a dire che non ci si fa la barba prima di una vittoria. Così, ho obbedito. Ha funzionato. Adesso però non chiedetemi di lasciarla crescere: già non sono Alain Delon, figurati barbuto...».
Parole che sanno di terra e di prosecco, al dolce aroma di un ciclismo antico. Così come quelle dello stesso Di Luca, che distanzia ancora i suoi rivali in classifica, inseguendo un obiettivo all'amabile aroma di un Vito Taccone: «Non ci posso credere: potrei essere il primo terrone a vincere il Giro...».
Sarebbe edificante continuare in questo ritorno alle origini, risalendo la storia fino alla sorgente di un ciclismo più limpido e cristallino. Ma agli antipodi di questo Giro ci sta tutta un'altra storia, tutto un altro genere di facce e tutto un altro genere di ricordi. Gli antipodi stanno a Copenaghen, dove anche Biarne Riis decide di interrompere la penosa recita e di vuotare il sacco. Cose che non stupiscono nessuno. Perché tutti quanti sappiamo che gli anni Novanta resteranno nelle memorie come i favolosi anni della «Belle Epo'(que)». Soltanto qualche bischero può ancora pensare che Pantani vincesse perché dopato. In realtà, il dopato Pantani batteva dopati come lui, così che alla fine il confronto andava considerato comunque assurdamente e tremendamente sincero.
Adesso Riis ci viene a raccontare che il Tour '96, probabilmente, non gli spetterebbe, perché senza Epo non l'avrebbe vinto. Ma va? Noi si pensava invece che un atleta come lui, di taglia granatiera e passistona, volasse in montagna per il solo fatto di averci messo «tanta grinta», per una pura «questione di testa» (così, allora, ci raccontavano, pensando che tutti quanti avessero l'anello al naso).
Questa ammissione fuori tempo massimo, che arriva ben oltre le confessioni a cascata della sua vecchia squadra Telekom, non aggiunge granché. Oltre tutto, non costerà neppure nulla, perché il tempo ha prescritto. Altre cose, piuttosto, il vecchio Riis dovrebbe spiegare. La prima ci riguarda da vicinissimo, qui agli antipodi del Giro. E cioè come gli sia riuscito di recitare la parte della verginella offesa quando il suo atleta migliore, da lui stesso allenato giorno per giorno negli ultimi tre anni, finì invischiato nella famosa Operacion Puerto, la madre di tutte le inchieste. Inutile specificarlo: quell'atleta si chiama Ivan Basso. Tutti ricordano come frettolosamente, ma anche sdegnosamente, Riis lo scaricò nel giro di poche ore, prima dell'ultimo Tour. E come poi, nei mesi a seguire, non perse occasione per professarsi «deluso», «ferito», «tradito».
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