Bosa (Nuoro) - È già tempo di fare qualche saluto. Prima di tutto alla Sardegna, che stasera lasceremo. Ovviamente il saluto commosso e malinconico va alla Sardegna di questa stagione, lontanissima parente di quella burina e coatta d'agosto. La Sardegna di maggio si è mostrata in tutta la sua classe e la sua nobiltà, con i suoi colori e i suoi silenzi, aggiungendo al mare vitreo delle spiagge questo insolito mare di terraferma, mare di tifosi e di curiosi, a dimostrazione di come il ciclismo possa scoprire le vergogne peggiori, ma di come poi il Giro riesca comunque a coprirle con i suoi richiami di festa, di piazza, di campanile.
Siccome però non siamo in viaggio per fare del turismo sentimentale, doveroso passare ai saluti di settore. Tanti saluti - dopo enorme spavento - al povero Andrea Tonti, che il proprio Giro lo chiude con larghissimo anticipo sotto le transenne dell'arrivo, ivi infilato dalla solita spallata assassina in sede di volata. Frattura del setto nasale il souvenir che riporta a casa. Ma l'importante, in certe giornate, è riportare a casa soprattutto la pelle.
Proseguendo, tanti saluti alla nuova maglia rosa, quel Danilo Di Luca che già doveva vestire confetto dopo la prima cronosquadre, se quell'impiastro del suo gregario Gasparotto non gli fosse passato davanti negli ultimi metri, suscitando la famosa reazione di stampo anglosassone. Arrivando a Bosa, Di Luca è bravo a farsi trovare davanti nella bolgia decisiva, così da piazzarsi meglio del compagno e scavalcarlo in classifica generale. «La maglia mi fa piacere - dice poi con parole da sapiente - ma certamente non mi dannerò per tenerla. A trentuno anni, ho imparato che bisogna risparmiarsi per l'ultima settimana. Non commetterò gli errori di gioventù...».
Complimenti a lui e avanti con i saluti. Un saluto caloroso e deferente a Robbie McEwen, il velocista australiano che alla prima occasione centra subito lo sprint letale, battendo il nostro Bettini. Qualche saluto riconoscente dovrebbe mandare pure lui alla squadra di Petacchi, che da anni servilmente gli tira gratuitamente la volata, tutti i gregari davanti e il capitano in fondo al treno, senza mai porsi il problema se sia il caso - una volta almeno - di mettere un uomo, uno soltanto, tra lo stesso Petacchi e l'impareggiabile canguro succhiaruote. Inutile però farla lunga: contenti loro di lavorare per il nemico, conviene proseguire con il salutificio.
Purtroppo, tanti saluti anche a Petacchi. Tanti saluti al re dei velocisti, all'erede di Cipollini, all'irresistibile dominatore dell'ultima era. Un anno dopo la caduta - con frattura - di Namur, nel Giro 2006 che sconfinava in Belgio, il Petacchi di oggi è un atleta imballato, impotente, impalato. Chi si è esaltato contemplando le sue progressioni in testa al gruppo, tremendo spettacolo di potenza e di velocità, non può provare adesso che mestizia e inquietudine. La superiorità di McEwen, ma anche dello stesso Bettini, ha risvolti umilianti. Onorevole e dignitosa, comunque, la sua resa: «Cosa succede a Petacchi? Succede che Petacchi non va. Non va come vorrebbe. Certo è già molto essere di nuovo qui, tra i primi, dopo l'incidente che ho sopportato. Ma non basta per vincere. Si vede che mi manca ancora qualcosa...».
L'impressione generale, benchè brutta e inconfessabile, è che gli manchi qualcosa di irrimediabile. Come l'età di una volta (oggi siamo a trentatrè), come la serenità di una volta (oggi appare macerato e pessimista). Sull'età non sembrerebbe nemmeno il caso di deprimersi troppo: Cipollini vinceva a trentacinque anni, e lo stesso McEwen, che attualmente lo ridicolizza, è del 1972. Chiarissimo: il nodo cruciale è l'altro. Petacchi appare insicuro, fragile, ombroso. Certo l'infortunio dell'anno scorso è una cosa seria. Ma ad essere sinceri, già prima della maledetta caduta non sembrava uno splendore di Petacchi.
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