Una delusione cocente, nient’altro. Ma è già abbastanza. Un mezzo tradimento. Forse anche più di mezzo... Quando cade un mito, quando si appanna una stella, quando scopri che nel privato uno dei tuoi idoli adopera un criterio diverso da quello che applica in pubblico per gli altri, tutti gli altri, allora non può che esserci sorpresa. E delusione, appunto. Volevo intervistare Enrico Lucci, quello visto ieri sera nell’ultima bastardata a Marco Pannella. Niente di che, un’intervista come tante se ne fanno, più che ben disposto nei confronti della Iena regina di Italia 1. Una chiacchierata per soddisfare alcune curiosità - Lucci si nasce o si diventa? - ascoltare, imparare. Alla fine, ho rinunciato. Enrico Lucci è forse il mejo figo del bigoncio catodico di questi anni depressi. Le sue interviste a politici e divi in auge, le sue irruzioni nella mondanità più o meno sbracata, i suoi agguati alle sfilate di moda, le sue impertinenze alla prima della Scala sono quanto di più godibile la televisione tutta ci abbia proposto negli ultimi tempi. Aldo Grasso ha scritto che Lucci vale da solo il prezzo del biglietto, un po’ come si dice di un grande calciatore, un fuoriclasse che ti fa andare allo stadio solo per vedere i suoi numeri anche se il resto della squadra e dello spettacolo sono modesti. Lucci è il fuoriclasse delle Iene fin dalla fondazione, nel 1997. Ecco perché la delusione è più cocente. Per restare nella metafora calcistica, sarebbe un po’ come scoprire che faccia d’angelo Kakà tirasse di coca (non pervenuto). O che John Terry del Chelsea, papà modello, andasse con la fidanzata di un suo compagno di squadra (agli atti).
Ex leader della Pantera, elettore del Pd che non ama le terrazze, Lucci cominciò in una tv locale romana. Poi, tramite Claudio Ferretti di Raitre che aveva conosciuto durante un’occupazione alla Sapienza, passò in Rai dove lavorò a Quasi gol, Anni azzurri, Telesogni. L’ufficio marketing di Mediaset lo notò e lo chiamò per le Iene. Giornalismo, satira, sberleffo, dissacrazione, anticonformismo, nella sua televisione c’è tutto. Surreale come Nanni Loy, finto ingenuo come il tenente Colombo, contropiedista come il Chiambretti prima maniera, ha fatto della stronzaggine un pregio narrativo, un propellente di curiosità, un additivo nei faccia a faccia più spericolati (può vantare anche le prime imitazioni, come a Sugo - 60 minuti di gusto e disgusto, il programma di Rai4 firmato da Gregorio Paolini). E alla fine la sua faccia vince sempre.
Provate a rivedervi il duello con D’Alema. Dopo una breve intro, «Ecco Massimetto...». «Massimetto, me raccomando, nun me fa le risposte in politichese...». E D’Alema: «La qualità delle risposte dipende dalla qualità delle domande». La qualità nelle domande non manca. Come nell’incontro con Gabriele Muccino, regista di Baciami ancora, il film presentato come «la storia di tutte le storie d’amore». «Perché la gente continua a sposarsi?». Muccino: «Perché ha paura della solitudine, della vecchiaia, della morte». «Ma allora non conviene prendersi un’infermiera o un’assistente?». Ancora: «Non si può essere felici senza ’sto benedetto amore?». Muccino: «L’amore contiene una possibilità esasperata di felicità». «A Gabrie’, secondo te abbiamo detto parecchie stronzate?». Lo slang giovanilistico e senza inibizioni sconfina nella volgarità più bassa. Ieri lo si è visto entrare a Radio Radicale in compagnia di un medico per fargli «visitare l’ano» di Marco Pannella, perché «questo sedere ne ha viste di cotte e di crude». L’eccesso, la carognata, lo sfregio sono il suo pane. Difficile frenarlo... Corrosivo nelle interviste, si scatena nelle prese per i fondelli dei vip. La Lapo-story è un must assoluto. Lo sberleffo ad attrici e attricette ospiti di un gala che discettano sull’importanza della beneficenza senza sapere che la loro è indirizzata ai Campesinos di Cochabamba (Bolivia), un altro capolavoro di dissacrazione. La superficialità, la fatuità, l’ignavia di questo mondo di lustrini e ricevimenti sono i suoi bersagli preferiti. Poi, c’è il linguaggio dei vip, altro totem, fin troppo facilmente caduto in pezzi. Con l’espressione faceta, la barba di smeriglio, la voce abrasiva, aggrotta le sopracciglia e ripete con intonazione esclamativa le improbabili risposte delle sue vittime. Dietro tutto c’è una maliziosa opera di taglio e montaggio capace di rendere ancora più dirompenti i suoi agguati. Che spasso, incontrarlo: è così spietato anche nella vita normale - penso di sì - o lo fa solo davanti alla telecamera? Chiedo l’intervista. La pregusto, mi preparo... Ma qui arriva la sorpresa: l’intervista si può fare a patto che sia registrata e lui possa rileggerla con calma. Niente di esagerato se si trattasse di un ministro, di un diplomatico, di un pentito di mafia che parla per la prima volta. Ma Lucci? Perché tutte queste condizioni, queste cautele? Proprio lui che ha fatto la sua fortuna con le improvvisate a ingenue ragazzotte... Se le vittime designate dovessero firmare la liberatoria per la messa in onda, come finirebbero i suoi servizi? Qualcun altro ha accettato quelle clausole ipergarantiste.
Io non me la sono sentita e ho rinunciato. Ma certamente, lo scafatissimo Lucci non sceglierà quello che James Reston, mitico direttore del New York Times degli anni ’70, ha descritto come «l’ultimo rifugio dei mascalzoni: accusare l’ufficio stampa».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.