Luigi XVI, mediocre attore di una grande scena

Nel suo vagabondare tra i meandri della storia, l’infaticabile Antonio Spinosa si è imbattuto con il suo ultimo libro in Luigi XVI (Luigi XVI. L’ultimo sole di Versailles, Mondadori, pagg. 243, euro 18). Un sole, per la verità, molto appannato. Nella vicenda di questo «re martire», che fu anche, sottolinea Spinosa, l’ultimo «vero» re di Francia, colpisce il contrasto fra la grandezza degli avvenimenti e la mediocrità di chi ne fu protagonista.
Era nato, colui che la Rivoluzione ridusse a «cittadino Capeto», per essere un signor nessuno, un nobiletto o un borghesuccio sprovvisto di talento e di ambizione. Come biografo, Spinosa non è di quelli che s’innamorano dei loro biografati. Per lui Augusto fu il grande baro e Napoleone il flagello d’Italia. Pronto a smitizzare personaggi di quel calibro, figuriamoci con quel suo Luigi «grasso e goffo, debole e per consuetudine apatico». Ma dalle pagine del saggio emerge anche una verità malinconica. Non solo nella capacità di impersonare la monarchia, ma anche negli errori, nelle malefatte, nei crimini questo Luigi fu di gran lunga inferiore ai suoi predecessori. L’osannato Luigi XIV e il beneamato Luigi XV crearono, con un seguito di guerre e dissipazioni mostruose, le premesse della situazione che l’erede dovette affrontare. Per l’educazione ricevuta da precettori bigotti e per una personale incapacità di captare i fermenti sociali, Luigi XVI credette che sulla Francia s’addensassero nubi, non un uragano. Ma osò alcune misure che, se adottate decenni prima, avrebbero forse disinnescato la ribellione. Tentò di ammodernare l’amministrazione farraginosa e corrotta, abolì nei suoi demani la servitù della gleba, attenuò alcuni privilegi dell’aristocrazia: scontrandosi con il cotennoso egoismo e con l’incosciente frivolezza dei nobili che gravitavano attorno a Versailles. Non è escluso, trattandosi d’un fenomeno ricorrente, che alcune innovazioni da lui volute, ma molto ostacolate e male applicate, abbiano finito per agevolare il percorso rivoluzionario. La fine d’un regime non arriva con gli Stalin o con i Breznev, ma con i Gorbaciov.
Mi sembra che Spinosa abbia di proposito lasciato abbastanza al margine la figura di Maria Antonietta: bella, viziata, intrigante, ma tutto sommato meno influente di quanto pretenda la leggenda. Tuttavia, a Maria Antonietta riuscì in negativo ciò che a Luigi XVI non era riuscito in positivo: diventare il simbolo di tutte le frivolezze e le bassezze dell’Ancien régime.
La fine della monarchia e l’avvento della «dea ragione» ebbero le caratteristiche che sempre queste svolte epocali hanno, con gli immancabili piazzali Loreto. Vi fu l’affiorare della società delle tricoteuses isteriche e dei macellai implacabili, che trasformano l’abbattimento d’un ordine sociale in un’orgia di ammazzamenti e ruberie. Il processo contro il re fu una parodia, la sua esecuzione fu crudele. Ma il 3 dicembre 1792 Robespierre era stato esplicito, nel discorso all’assemblea legislativa: «Luigi deve morire perché la patria deve vivere.

In un popolo tranquillo, libero e rispettato all’interno come all’esterno si potrebbero rispettare i consigli di generosità che vi si danno. Ma un popolo a cui si contesta ancora la sua libertà dopo tante lotte e tanti sacrifici, deve desiderare di essere vendicato».

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