La lunga marcia di Bobo da Varese Il Viminale per lui è solo una tappa

Sul pratone di Pontida oggi Alberto da Giussano avrà la faccia di Roberto Maroni. Dalla celata dell’elmo spuntano gli occhiali tondi e i baffi del ministro dell’Interno: è lui il leghista del momento, il più movimentista, il più battagliero, ma anche il più avveduto. Quello che frequenta con la stessa disinvoltura le stanze del potere e le riunioni dei militanti. E che, tra lotta e governo, sceglie entrambi: barricadero nelle interviste e gran tessitore dietro le quinte.
Dei colonnelli leghisti è il più concreto. Se Calderoli declina il verbo bossiano sul versante riforme, Bobo Maroni ha scelto il lato pratico, più visibile e immediato, e quindi più pronto all’incasso elettorale. Da titolare del Viminale si occupa di sicurezza, immigrazione, ordine pubblico, questioni che toccano direttamente la vita quotidiana della gente. Il federalismo è la grande riforma leghista, l’utopia che lentamente diventa realtà, ma richiede tempo, capacità di mediare, abilità nel comunicare e pazienza nell’attesa dei risultati. Ma il popolo del Carroccio, quello ruspante di Pontida, non ama le estenuanti liturgie parlamentari. Invece il controllo del territorio fornisce un riscontro fulmineo, ti esalta se azzecchi le misure giuste e ti bastona se resti a guardare.
Maroni l’ha sperimentato di persona negli ultimi mesi. Il campanello d’allarme è echeggiato dalla Libia. I padani non volevano la guerra in Nord Africa, la Lega si è baloccata con il boicottaggio ma alla fine si è allineata alla ragion di stato, e la gente non ha capito. Al traccheggio bellico è seguita la disastrosa gestione degli sbarchi a Lampedusa. Per un certo periodo la paralisi ha colpito il ministro, che sperava di risolvere la faccenda sceverando tra clandestini e profughi in cerca di asilo. E ne è uscito malamente, aprendo le porte dei centri di accoglienza e lasciando che gli africani sciamassero nel resto d’Europa. Tutto fuorché una serie di azioni coordinate e rigorose.
Così, alla prima «sberla», Maroni è stato il primo a reagire. Ha sfruttato l’asse ministeriale instaurato da tempo con l’Alfano-guardasigilli per aprire un rapporto privilegiato con l’Alfano-segretario Pdl. Sul fronte interno ha deciso una tregua con Calderoli, il concorrente più diretto nella corsa alla successione del Senatùr. Ha mantenuto il buon vicinato con Roberto Formigoni attraverso il vicegovernatore Andrea Gibelli. Ha consolidato il legame con i veneti, il suo bacino elettorale più cospicuo assieme ai conterranei di Varese, ma soprattutto il suo vero laboratorio. Il governatore Luca Zaia presidia la piazza. Il sindaco di Verona Flavio Tosi, il trevigiano Giampaolo Gobbo (che è anche segretario della Liga veneta) e Attilio Fontana, appena riconfermato primo cittadino di Varese (uno dei rari successi elettorali del Carroccio alle amministrative), sono i «tester» di ogni provvedimento in materia di ordine pubblico nelle città. Essi soprattutto rappresentano gli arieti nell’opera di sfondamento dei limiti finanziari imposti dal patto di stabilità agli enti locali.
Dal patto di stabilità alle rigidezze di Giulio Tremonti, il passo è breve. La settimana scorsa Maroni ha attaccato frontalmente il ministro dell’Economia sulla riforma fiscale. «Ci vuole più coraggio»: una frase tagliente che declassa il pavido Tremonti al ruolo di ragioniere mentre restituisce la ribalta riformista all’uomo del Viminale. Nel suo stile, Maroni ha scelto ancora una volta un terreno tangibile: le tasse, i soldi. E ha anche sottratto a Tremonti l’immagine di luogotenente numero 1 di Bossi agli occhi di Silvio Berlusconi.
La parola d’ordine è togliersi di dosso l’immagine del leghista ben accomodato nel cuore del potere, che tiene viva la presenza leghista senza scivolare nelle sguaiatezze contro Roma ladrona. Ai referendum Maroni ha espresso due «sì» ai quesiti sull’acqua, imitato da Zaia i cui «sì» sono stati addirittura quattro. Bobo mostra invece eccessivo entusiasmo per il trasferimento dei ministeri al Nord. Egli consegna volentieri queste battaglie all’altro Roberto, lasciando che si caratterizzi sempre più come uomo di palazzo. Calderoli continua a dibattersi tra il partito e il federalismo, in un intrico di leggi e leggine, tabelle di spesa, bracci di ferro con le regioni, riforme vere e presunte.

Maroni invece punta dritto ad appesantire le tasche degli italiani. E attraverso le tasse, mira a un’altra ambita poltrona di comando, che non si trova in un edificio umbertino di Roma ma in una periferica palazzina milanese di via Bellerio.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica