Cultura e Spettacoli

Lux: "La biblioteca digitale ha la memoria corta"

La presidentessa dell'Ifla ci racconta i rischi della cultura affidata alla tecnologia: "Dieci anni fa pensavo che il libro di carta fosse morto. Mi sbagliavo". Il pericolo: "La pergamena dura per secoli, i cdsi deteriorano facilmente"

Lux: "La biblioteca digitale ha la memoria corta"

Milano - La biblioteca si è tolta la polvere e si è messa il mouse. È diventata, o sta diventando, digitale. Molti dei vecchi bibliofili amanti degli scaffali odorosi di carta e colla da legatoria storceranno il naso, ma è così. Prima c’erano le schede dei cataloghi, la classificazione Dewey (una serie di numerini che identificano la collocazione dei libri), le bibliotecarie d’antan delle piccole biblioteche che ti guidavano con mano sicura verso questo o quel volume.

Adesso, invece, ci sono gli Opac (On-line Public Access Catalogue), i testi digitalizzati che il lettore si fa mandare direttamente sull’E-book, emeroteche che non acquistano più i giornali di carta ma si limitano ad abbonarsi al formato elettronico che viene poi spedito sull’iPhone dei loro lettori (dove si autodistrugge dopo l’utilizzo)...

Ma questa ventata di tecnologia è solo un bene? Funziona sempre? È quello che si stanno chiedendo anche i quasi quattromila delegati della Federazione internazionale delle biblioteche (Ifla) che hanno invaso i padiglioni della vecchia Fiera di Milano per il loro congresso mondiale. E nel via vai dei partecipanti, che vanno dal bibliotecario americano con gli stivali da cowboy sino alla delegazione cinese che cammina in fila e sembra un po’ smarrita, i dubbi sono tanti. Dubbi che in alcuni casi si trasformano anche in paure. Ne abbiamo parlato con Claudia Lux, direttore generale della Biblioteca centrale e regionale di Berlino e presidentessa dell’Ifla.

Dottoressa Lux, il libro di carta è morto e dovremo tutti abituarci all’idea di un mondo dove si legge solo su degli schermi?
«Oggi le dico che i libri di carta continueranno ad avere un ruolo a lungo. Dieci anni fa le avrei detto che invece per il supporto cartaceo era giunta la fine».

Come mai ha cambiato idea?
«Pensavamo che la digitalizzazione avrebbe dato una svolta immediata e definitiva al modo in cui le informazioni, il testo, vengono trasmesse al fruitore, il lettore, ma in realtà il processo è molto più lento. Prima che il libro muoia davvero ci vorranno almeno cent’anni. È questione di abitudini, è questione di comodità legata alla facilità di uso del supporto cartaceo. Sulla metropolitana lei legge molto meglio un libro preso in prestito che un E-book».

Però in teoria il digitale consente di avere molte più copie per il prestito...
«In questo caso c’è la complessa questione del copyright. Alla fine una biblioteca acquista un numero limitato di licenze. Così capita che qualcuno cerchi di avere il libro on line non ci riesca e torni a sedersi in biblioteca dove le copie cartacee sono facilmente disponibili. Nel caso della biblioteca di Berlino, che conosco bene, questo accade sempre più spesso. Bisogna ricominciare a pensare la biblioteca come uno spazio fisico. Dove la gente va davvero, anzi dove la gente andrà sempre di più».

È per questo che al convegno mondiale qui a Milano si discute tanto del futuro di E-book e degli altri supporti del «libro» del futuro?
«Non solo per questo. Tutti questi nuovi materiali pongono dei grossi problemi di conservazione. Non esistono degli standard e non esistono delle certezze...».

In che senso?
«Le pergamene dei testi medievali hanno una durata secolare. La carta dei libri è più fragile, ma è comunque un materiale che sappiamo maneggiare e di cui sappiamo valutare con esattezza il comportamento. Per quanto riguarda i Cd e i Cd Rom, se la conservazione non è perfetta, la durata può ridursi ad appena dieci o quindici anni. Basta qualche sbalzo di temperatura per comprometterli».

Insomma affidarsi solo ai nuovi metodi tecnologici rischia di farci perdere dei pezzi di cultura?
«Sì, la Federazione internazionale ha creato un gruppo di studio apposito per creare degli standard e delle regole. Allo stato attuale l’unica sicurezza è data dal mantenere delle copie degli originali su server. Ma non è solo una questione di materiali usati, c’è la questione dei software, non è detto che una cosa salvata oggi si possa leggere tra vent’anni».

Soluzioni?
«Ci stiamo lavorando. Innanzi tutto la questione è quella di ottenere dei materiali con una durata certificata. Ad esempio c’è un nuovo tipo di microfilm che è garantito per durare trecento anni. Si dovrebbe ottenere la stessa cosa anche per i Cd Rom. Poi bisogna trovare un accordo che stabilisca con che software vanno salvate le cose e come debbano funzionare i sistemi di emulazione. Su questo stiamo preparando una sorta di libro bianco...».

Il bibliotecario sta diventando una specie di tecnico informatico...
«Non è solo una questione tecnica. Chi lavora in biblioteca deve insegnare ai lettori a destreggiarsi tra le nuove tecnologie. Diventa una sorta di insegnante. Se questo non succede, i computer invece di dare accesso a più saperi si trasformano in barriera. Il ruolo didattico è cambiato non scomparso, anzi è diventato più importante di prima. Se no il lettore si perde nella vastità della rete...».

E la questione dei costi? È di questi giorni la notizia che la Bibliothèque Nationale de France ha ceduto i propri scaffali allo scanner di Google, come già la Bodleian Library di Oxford. Da sola non aveva i fondi per digitalizzare i libri...
«Ricorrere a Google personalmente non mi sembra una cosa scandalosa, anzi. È un modo di accelerare dei progetti necessari. Non è l’unico modo, i cinesi se la stanno cavando bene da soli digitalizzando libro per libro... Una volta che si sono fissate le regole per fare le cose per il resto il modo di farlo può essere variabile...».

Insomma è diverso nei Paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo?
«Nei Paesi in via di sviluppo la biblioteca sta conoscendo un ruolo nuovo. Per le sue capacità multimediali viene spesso utilizzata anche come luogo per convegni d’affari o spazio dove si incontrano i liberi professionisti.

Chi pensava fossero luoghi morti si sbagliava».

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