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Madre fatta a pezzi, in aula tutte le immagini dell’orrore

Udienza choc al processo contro Boris Zubine: sullo schermo appaiono i pezzi del cadavere

Enrico Lagattolla

Primo fotogramma: un sacchetto nero, di quelli della spazzatura. Decimo e ultimo fotogramma, la salma ricomposta dopo un’autopsia. Nel mezzo, la genesi al contrario di Maria Arena, cadavere dall’agosto del 2003. Dalle parti al tutto, dai brandelli al corpo.
Prima corte d’assise ieri mattina, processo a carico di Boris Zubine. Lui, accusato di aver ucciso la madre e di averne sezionato il cadavere, segue da dietro le sbarre. A meno di due metri da lui, seduta in seconda fila, la fidanzata Marinella Russo, che deve rispondere di favoreggiamento. Il pubblico ministero Luca Poniz cede la parola al medico legale, la dottoressa Cristina Cattaneo. «Avanti con la prima immagine».
Dieci scatti per ricostruire un omicidio. Il sacco che contiene i resti della vittima, nascosto nella cantina dello stabile di via delle Asturie. Le otto parti del corpo di Maria Arena sul tavolo del laboratorio di medicina legale, un braccio («quello è un braccio?», chiedono i giudici di fronte al «reperto» irriconoscibile), il tronco, le gambe. E poi la testa, lugubre residuo della donna, sfondato dai colpi inferti con un ferro da stiro. E alla fine, quel che resta del corpo. Intero, «ma in avanzato stato di decomposizione».
L’autopsia, così, entra nell’aula. Bastano dieci immagini a raggelare. Una minima parte, delle cento e passa, che compongono il macabro dossier da tempo agli atti. Ma tutte non servono. Mentre Boris abbassa lo sguardo, e Marinella pure. E la corte che a stento dissimula il ribrezzo. E il pubblico morbosamente attratto dai dettagli orripilanti sullo schermo.


Strana atmosfera alla prima corte d’assise. Più che un tribunale, una sala operatoria. Realistici effetti di un cadavere fatto a pezzi, e di pezzi che tornano cadavere. L’odore no, quello non c’era. Ma l’orrore, tutto.

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