da Roma
«Andarmene da qui? No di certo. Ho un master da terminare: sono venuta a Roma per quello, e non intendo rinunciarci. Però dopo quello che mi è successo al governo italiano dico che bisogna fare più controlli alle frontiere. Non si possono lasciar passare ai confini tanti stranieri senza occupazione, senza un reddito, senza una prospettiva: troppo facile che questa gente a forza di vivere di espedienti, per strada o nelle baracche, finisca per delinquere».
Un atto d’accusa duro, ma circostanziato. Anche perché arriva da qualcuno che sa bene di che pericoli sta parlando. A chiedere interventi per frenare la disperazione e la violenza degli emarginati è, dal suo letto d’ospedale, la studentessa 31enne del Lesotho violentata e accoltellata la sera di giovedì scorso all’esterno della stazione della Storta, a nord di Roma.
Superato in parte lo shock, ora che è fuori pericolo, le resta soprattutto la rabbia per quella violenza cieca con cui Joan Rus, il 37enne romeno, pregiudicato in patria e incensurato a Roma, l’ha segnata per sempre, rischiando di ucciderla.
La ferita all’addome, che per fortuna non ha danneggiato organi interni, non preoccupa più di tanto i medici del San Filippo Neri che l’hanno in cura: guarirà presto. Ma quanto è accaduto difficilmente potrà essere dimenticato da questa ragazza, che tutti descrivono come sorprendentemente forte e serena, nonostante l’incubo dell’altra sera. Per questo, accanto a lei, dal momento del ricovero c’è una equipe di esperti che le assicura il supporto psicologico necessario dopo il trauma conseguente alla drammatica disavventura.
«Sta bene, è ancora spaventata, un po’ sotto shock, ma sta meglio», spiega la madre, addetta all’ambasciata del piccolo regno africano. «Mai più in Italia», sussurra in inglese la donna, prima di andarsene dall’ospedale romano.
Ma è più uno sfogo che una rivelazione, perché sua figlia, appunto, sembra assolutamente determinata a continuare a seguire i corsi del master in «International Policies and Crisis management», che frequenta da gennaio al centro di Ricerca in studi europei e internazionali della Sapienza, insieme a 19 colleghi di ogni nazionalità.
E anzi, la 31enne non smette di manifestare la sua gratitudine per i «due angeli» che l’hanno salvata: un meccanico e un operatore informatico che passavano di lì in auto e hanno notato l’aggressione, avvertendo i carabinieri e impedendo che la violenza sulla ragazza del Lesotho finisse peggio.
«È grazie a loro che sono salva, voglio ringraziarli, perché a quei due angeli devo la mia vita», ripete a chiunque vada a trovarla. Ricordando l’angoscia di quei momenti, quando Rus l’ha trascinata per terra per violentarla e l’ha colpita forte con la lama per costringerla a stare ferma, a non reagire. «Terribile, è stato terribile», sospira.
La giornata in ospedale trascorre tra controlli medici, visite di amici, compagni di corso e parenti. Ed è proprio una zia della ragazza, Mapikoko Eulalia Tlamelo che, dopo aver rinnovato il ringraziamento ai due testimoni che hanno dato l’allarme, conferma che la famiglia di diplomatici del Lesotho non intende certo «scappare» dall’Italia per tornare nella piccola enclave in territorio sudafricano. «Non sappiamo ancora quando mia nipote sarà dimessa», spiega lasciando l’ospedale romano la donna, prima di aggiungere che, comunque, «non andremo via, resteremo tutti in Italia». Un’amica sembra più spaventata della vittima, «poteva succedere a me», racconta con un filo di voce. Ma «potrebbe accadere a me», dalle morti di Giovanna Reggiani e del ciclista Luigi Moriccioli, a Roma è una frase che si sente dire troppo spesso in giro.
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