Luciano Gulli
In principio furono i giudici (certi giudici) italiani. Cominciarono loro, quelli di Mani pulite, a surrogare il potere politico convinti di essere unti dal Signore nella loro crociata moralizzatrice. Una sorta di sindrome del missionario in tocco e toga, si direbbe. Ovvero di chi è convinto che a esso è affidata non già o non solo la potestà di sanzionare comportamenti penalmente rilevanti, ma addirittura la palingenesi del consorzio umano.
I giudici spagnoli vennero a ruota. E per superare il disagio psicologico di essere arrivati secondi allargarono il raggio dazione allintero pianeta, mettendo sotto inchiesta anche i governanti di Paesi lontani migliaia di miglia da Madrid. Balthazar Garzón fu il primo. Sotto le sue spazzole transitò - senza riportarne gran danni, per la verità - lottuagenario ex presidente cileno Augusto Pinochet. Ora è il momento di Ismael Serrano, oscuro (fino allaltro ieri) giudice dellAudiencia Nacional, il quale si è messo in testa - grazie a una bislacca sentenza della Corte costituzionale in cui si discetta di «giurisdizione universale», cosa che non era venuta in mente neanche al giudice Di Pietro - di incriminare addirittura lex presidente cinese Jang Zemin e lex primo ministro Li Peng (insieme con altri cinque ex alti papaveri del partito comunista cinese). Laccusa? Genocidio in Tibet, Paese scippato con la forza al Dalai Lama dai cinesi a partire dal 1950.
Lappiglio giuridico? Nulla, una cosetta. Una denuncia sporta da un Comitato di appoggio al Tibet, che il tribunale spagnolo ha deciso di avallare elevando il reato di genocidio a «delitto di diritto internazionale». Sicché è evidente che quanto prima allAudiencia Nacional si aprirà un altro fascicolo per il genocidio degli armeni, dei pellerossa, degli xavantes (popolo dellAmazzonia) e degli altri stermini di massa di cui è punteggiata la storia del nostro travagliato pianeta. Il giudice Serrano ha dato avvio alla sua inchiesta accogliendo la deposizione del cittadino spagnolo di origine tibetana Thubten Wangchen, direttore della Fondazione Casa del Tibet, che ha raccontato di come, ancora bambino, gli occorse di assistere alla cattura della madre, allora incinta, e di altre donne da parte delle autorità cinesi. E di come egli dovette riparare prima in Nepal, poi in India, e quindi in Spagna per sfuggire alle minacce di morte rivolte a lui e ai componenti della sua famiglia.
Il direttore della fondazione tibetana ha inoltre raccontato che in occasione di una sua recente visita in Tibet è stato arrestato e minacciato di morte perché trovato in possesso di una foto del Dalai Lama. E che solo il rango di diplomatico, di cui misteriosamente godeva allinterno della delegazione di cui faceva parte, lo ha salvato da conseguenze sgradevoli. Il che non lo ha tuttavia messo al riparo dallaccusa di fomentare, attraverso la televisione cinese, «manifestazioni separatiste e controrivoluzionarie».
E siccome il giudice Serrano non è uomo da starsene con le mani in mano, ecco che, appena sentito il signor Wangchen, ha già inoltrato al Regno Unito e al Canada, per cominciare, una rogatoria internazionale tesa ad accogliere le testimonianze di altri esuli colà riparati. Mentre al ministero degli Esteri di Madrid ha chiesto materiale relativo alle risoluzioni dellOnu sul Tibet; dettagli sulle cariche ricoperte dagli accusati (lex presidente e lex primo ministro cinesi, appunto) e qualsiasi altra informazione giacente negli archivi del ministero a proposito di unoccupazione, con conseguenti massacri, cominciata or è quasi mezzo secolo e raccontata dal Dalai Lama in persona e da altri fuggiaschi da Lhasa e dintorni in oltre seimila (cito a memoria) fra conferenze e dibattiti svoltisi negli ultimi lustri tra la Finlandia e la Patagonia.
Gli «Zorro» di Madrid però non si sono fermati al Tibet e ieri hanno deciso che Pechino debba finire alla sbarra anche per le denunce presentate dalla setta Falun Gong: il tribunale supremo ha infatti ordinato allAudiencia Nacional di perseguire le autorità cinesi per crimini contro lumanità.
In Cina, le notizie relative allinchieste spagnole hanno suscitato, dicono, una certa composta ilarità.
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