Parigi - I ladri rispettano la prima ricchezza della casa del colto; i libri infatti pesano tanto, ma rendono poco, se venduti, anziché letti. Così, entrando nell’appartamento del sociologo Michel Maffesoli, illuminato dal sole in boulevard St. Germain, non ho la sensazione del furto subito di recente. Evidenti sono solo le nuove serrature. Il resto è come ci si immagina: scaffali ovunque, dove regna l’ordine che impone la selezione per le sole grandi opere dei grandi autori; resti la saggistica dei minori e degli infimi nella biblioteca universitaria... Non è universitario - alla Sorbona - anche Maffesoli? Sì, ma del cattedratico ha una dote rara, quasi contrastante col mestiere come viene inteso nell’era del politicamente corretto: è uno spirito libero. Quando in Italia uscirono i suoi primi lavori - il trittico della Violenza e la città (Nuova Cappelli, 1979) -, il nome di Maffesoli vi appariva fra quelli di altri due grandi, ma soprattutto due atipici: Julien Freund e Gilbert Durand. S’era allora conclusa l’epoca dell’Autonomia bolognese, che era parsa continuare, ma in sostanza aveva liquidato la deriva del ’68. Mentre i nouveaux philosophes gettavano le basi della nouvelle oppression, il pensiero unico, Maffesoli scorgeva altri punti di riferimento per l’analisi sociale. Da allora in Italia si sono tradotti una ventina di suoi libri e un altro è in uscita da Guerini.
Come definire Maffesoli? È chiaro e accattivante, specie quando al suo pensiero dà la forma della libellistica, come ne La République des bons sentiments (Editions du Rocher, 2008). Così non sorprende che fra le icone del suo studio ci siano, fra altri inattesi, Martin Heidegger e Walter Benjamin sovrastati da Joseph de Maistre. E in ex ergo de La république c’è una constatazione di quest’ultimo: «Alle opere occorre l’impertinenza come ai sughi occorre il pepe».
Professore, dopo la modernità c’è la post-modernità, quindi...
«... La trasfigurazione - in senso cristico - del politico».
Nel senso che...
«... Nella modernità il politico ha funzionato sulla grande idea della razionalità».
Secondo il modulo...
«... Ho un programma, vi convinco che è efficace e voi mi date il voto».
Per dirla con Jean Baudrillard...
«“Dalla convinzione alla seduzione”».
Esempi di seduzione in politica?
«Schwarzenegger, Berlusconi, Sarkozy».
La seduzione è l’utensile della postmodernità. Come agisce?
«Mettendo l’accento sull’“emozionale”, neologismo molto usato in Francia e di senso meno personale, che preferisco a “emotivo”».
Qualcosa di nuovo, anzi d’antico. Infatti mi sovviene un sociologo fra
Otto e Novecento: Gustave Le Bon.
«Concordo con lui che le folle sono “isteriche”, nel senso etimologico: che sono mosse dal “ventre”. Caratteristico del politico è che sia sollecitato il “ventre”».
Accade solo nel politico?
«No. Lo si vede anche nel religioso, pur se con Giovanni Paolo II era molto più netto che con Benedetto XVI».
In che senso?
«Giovanni Paolo II cercava le folle, vi si immergeva».
E allora?
«Il suo contatto con loro diventava il suo principale messaggio».
Come nei concerti rock?
«Sì. E anche come nelle gay parade, in altre forme di aggregazione di massa e nelle manifestazione singole dei loro componenti, come i writers».
Ricapitoliamo.
«Il paradigma moderno - imperniato sul lavoro - è razionale».
Va bene. E poi?
«Nascono le sue grandi istituzioni: ospedali, scuole, prigioni, come ha constatato Michel Foucault».
Chi ideò il paradigma moderno?
«Nel XVII secolo Cartesio, nel XVIII gli illuministi; lo realizzarono nel XIX le istituzioni di cui le dicevo, nel XX le rivolte giovanili».
Che indicano insoddisfazione per la modernità, però.
«Il suo logorio. Per dirla con Nietzsche, risorge Dioniso e declina Apollo».
Dioniso è l’edonismo.
«Soprattutto è l’affermarsi dei valori del sud contro quelli del nord».
Il Brasile, più che la Svezia, come modello di vita.
«Piuttosto la logica dell’et/et prevale su quella dell’aut/aut. Per la Francia, la cultura del cassoulet affiancata da quella del sushi».
Se non al «villaggio globale» scorto da Marshall Mc Luhan, siamo alla provincia globale.
«Sì, sviluppo tecnologico che procede con l’uniformizzazione provinciale, con la tribù, con il clan».
Campanile, squadra, gonfalone. Ovvero: «Saremo globalizzati, ma siamo sempre noi».
«L’emozionale è appunto il ritorno a ciò che è vicino, tribale. È il ritorno alla prossemica (i comportamenti che si tengono con chi è prossimo a noi, ndr)».
L’irrazionale erompe dal razionale. Vilfredo Pareto...
«Aveva intuito che il non-logico non è illogico».
Genovese di Parigi, qui Pareto non ha il seguito che merita.
«Qui pare un “immorale” per aver scritto il magnifico Il mito virtuista. E pare un fascista».
In Italia pare un liberale conservatore.
«Ma fu nominato senatore del Regno da Mussolini».
Al governo dal 1922 e Pareto morì nel 1923!
«Come Pareto sapeva, agli ipocriti basta poco».
Altri pensatori italiani che contino per lei?
«Franco Ferrarotti, il primo Francesco Alberoni».
«La République des bons sentiments» è innanzitutto la Francia, ma non solo. Che cosa definisce tali?
«Le pubblicazioni, libri di edificazione, intrisi di moralismo che occulta la realtà».
Moralisti che vantano solo diritti, ma pieni di sensi di colpa.
«Il dover essere (sollen in tedesco) inibisce di capire ciò che è. Sono le lenti deformanti del ben pensante».
Del moderato, per Abel Bonnard.
«Il politicamente corretto è nato dal dover essere. Bernard-Henry Lévy è il suo alfiere».
Detto chi non le piace, mi dice chi le piace?
«Lo scomparso Jean Baudrillard, Edgar Morin, anche se non ha le mie stesse prospettive, e Serge Moscovici».
In «Iconologies» (Albin Michel, 2008), lei cita Charles Péguy: «Tutto comincia in mistica e finisce in politica».
«Le grandi ispirazioni all’origine dei cambiamenti della società s’istituzionalizzano e gli entusiasmi sfociano nella routine.
Morte del politico, dunque?
«No, esso subisce la trasfigurazione che le dicevo. Le polarità s’invertono: ora tutto comincia in politica e finisce in mistica».
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