Adesso che lo celebrano, ufficialmente, come pittore, Paolo Conte può ammetterlo: «Spero in una vecchiaia feconda - sorride, sornione - per consacrarla tutta ai pennelli». Le premesse ci sono: a Catanzaro, nei giorni scorsi, lAccademia di belle arti, di recente promossa al rango universitario, ha premiato con una laurea ad honorem la sua attività pittorica. E intanto una mostra di musica e immagini, Razmataz, gira da tempo tra Italia, Europa e America. Una sterzata netta, per il musicista italiano più amato nel mondo? «Mica tanto: cominciai a disegnare che ero bambino, il vizio della musica sarebbe arrivato dopo. Nella campagna di Asti, dove i miei si erano rifugiati durante la guerra, vidi marciare un trattore e fui affascinato da quel bisonte dacciaio. Così corsi in casa, e cominciai a disegnarlo. Ne seguirono altri, poi si cresce, scopri altre vertigini, e dai trattori passai ai nudi di donna e ai musicisti di jazz. Come i veri pittori, che so, Picasso, ho avuto i miei periodi: i cavalli, i nudi, lastrattismo».
Nel maggio 76, a Castel San Pietro, vicino a Bologna, la galleria darte Dürer ospitò la prima mostra dellancora ignoto pittore. Assai contiano il titolo: Unauto che sa di vernice, di donne, di velocità. Discreto il successo, ma inferiore a quello delle canzoni che lavvocato Conte, con studio in via Verdi, ad Asti, andava scrivendo per Celentano, Patty Pravo, Caterina Caselli, Jannacci, Lauzi: «Voci che mattraevano per la loro diversità. Erano franche, scabre, facevano capire le parole e nulla avevano da spartire con i manierismi della tradizione italiana».
In quel periodo uscirono i primi due album di Conte, ormai interprete di se stesso. Entrambi sintitolavano al suo nome e cognome, «avevano un intento documentario, la mia voce era grezza e refrattaria alla melodia, e non ero ancora sicuro di voler diventare un cantante». Ma la musica non bastò a soppiantare «laltro mio vizio, quello appunto della pittura», e fu lui stesso a disegnare le copertine dei due dischi: sulluna una coppia damanti, persi in un languore un po livido, nellaltro una festa tra anziani - Per ogni cinquantennio, era la canzone ispiratrice del quadro - fermi nellimpacciata fissità duna foto di gruppo.
Non è, insomma, un pittore della domenica, Paolo Conte. Ma anche la definizione di professionista non gli sattaglia, è una gabbia stretta per chi del disegno non ha mai voluto fare un mestiere, né un terreno di sfida. «Forse perché, nelle mie predilezioni, è addirittura più importante della musica: come tutti i segreti che condividi con te stesso». Anche per questo «disegnare è, quando posso, il mio passatempo preferito: un vecchio amico dinfanzia, che dà pace almeno quanto la musica ti rende insonne. Perché la musica ti tiene più eccitato, daccordo, sennonché leccitazione porta stanchezza. Dipingere invece riposa, ti regala serenità. Ma bada, non so se vorrei definirmi un pittore. Anche quando disegno molto, quasi mai ricorro ai colori a olio: mi pesa aspettare che asciughino, sulla tela, così preferisco la matita, il gouache, gli inchiostri».
Sicché, se la musica stanca e i colori a olio ti stressano, la matita rilassa. Ma se metti insieme le note e le immagini, ecco un petit maître de lécole du regard, come la critica francese, sempre immaginifica, ha definito Conte. Magari per la caratterizzazione cromatica che questo «maestro dello sguardo» imprime alle sue partiture, da artista che suona i colori e dipinge coi suoni. Smontando - scriveva anni addietro Vito Riviello - gli stili del Novecento, il liberty, il dada, il futurismo, lart nouveau, «per ricomporli in combinazioni utopiche e astratte di melodiosa convenienza». Sul foglio bianco, ma anche sul pentagramma: come nellultimo album, Elegie, con quel fagotto che mutua il colore violaceo dun violoncello, il corno che effonde aloni rosati, il vibrafono che evoca le «perline colorate» di Un gelato al limon. O come la tavolozza impressionista di Max, la cui «coda» orchestrale sembrerebbe sottratta a Ravel.
Ed ecco Vincenzo Cerami citare, parlando di Conte, il Blaue Reiter, il movimento che assortì Kandinsky, Klee e Franz Marc, e le avanguardie del primo Novecento, quando Gershwin guardava a Ravel, Stravinskij scopriva il ragtime e allombra della Tour Eiffel sincontravano Hemingway, Sidney Bechet e Picasso: «Il Picasso rosa e quello blu - azzardo - mica tanto estraneo a tanti tuoi quadri». E penso a quei saltimbanchi picassiani, raggelati nella solitudine. A quellalienata assenza di enfasi.
Lui gradisce il raffronto, ma puntualizza: «Sullenfasi sono daccordo, non mi appartiene. Quanto alle influenze, ne ho accolte tante, il cubismo, lastrattismo, il dadaismo. Ma non ne lascio prevalere nessuna. È vero, ci sono tutti, nel mio itinerario, i maestri del Novecento: è, la mia, una transavaguardia portata alleccesso, tutto quello che mi colpisce rimane, ma alla fine sono io che dipingo. E se cè un autore che amo alla follia, è sicuramente Campigli: questo tedesco di razza etrusca, con le sue geometrie strane e il suo razionalismo magico».
Tutto questo, del resto, lo ritrovi più o meno implicito in Razmataz, che oggi è un divudì e una mostra di successo - «Non sapevo come lavrebbero accolta, poi ha debuttato a Londra, due anni e mezzo fa, e non sè più fermata» - e domani, speriamo, un film musicale, «se troverò un mecenate deciso a rischiare, e pazienza se la gente non sammasserà al botteghino». A esser pignoli, poi, Razmataz è, tecnicamente, unopera multimediale, concettualmente un volo a ritroso dellanimo, «là nella Parigi anni Venti dove tutto stava nascendo, cinema, arti, jazz, e arrivò dallAmerica la musica nera, per poi invadere il mondo». Di più, Razmataz «è un sogno durato trentanni, che ho cominciato a realizzare quando hanno inventato il computer: il solo strumento capace di mettere insieme, senza snaturarlo, tutto quello che so fare, nel caso milleottocento disegni, un bel po di canzoni e poi dialoghi, illustrazioni, balletti». Ma è anche, Razmataz, un bellissimo libro, uscito anni addietro e dove il Conte pittore svela se stesso e il suo sogno meticcio, in questi dipinti nati dalle canzoni, e in queste canzoni suggerite da dipinti, «o magari dal montaggio. Ché avevo studiato, per il divudì, tempi fisiologici di mantenimento delle immagini, poi però il montaggio ha le sue esigenze, e così il montatore mi telefonava: Per la tale canzone mi servono altre due facce, diceva, e io le facevo».
Chiamalo dunque compositore, cantante, arrangiatore, pittore, mago del pianoforte o mago del carboncino, quello di Conte è tutto, in fondo, un viaggio per immagini. Razmataz ne è la sintesi: sciorinando, in un paradiso-inferno di colori e di suoni, cantanti espressioniste e musicisti neri, ballerine e sbirri, viveur, magnati, sghembe silhouettes e canzoni «scurrili e fatali». E, ancora, nudi femminei danimale bellezza, facce primordiali di negri, panorami parigini stravolti da geometrie cubiste. Con, perfino, sbarazzine citazioni dantesche, come in La giava giavanese: «Papé Satan, Papé Satan aleppe/ pan e salam pan e salam a fette». Qualcuno ci ha visto ascendenze fumettistiche, «ma i fumetti li frequento poco: tuttal più Disney, che mi rasserena, e Hugo Pratt, per il quale ho scritto le musiche duno spettacolo su Corto Maltese». O agganci col cinema, altra sua passione. Magari, secondo qualcuno, con Fellini, «che però era, per indole, un caricaturista, tutto il contrario di me. Tuttavia, certo, direi che la mia musica, più che una genesi pittorica, abbia unanima filmica: cè il bisogno di raccontare tutto in uno spazio breve, come in una sequenza di celluloide, dove non puoi concederti prolissità».
Torniamo, allora, allarte dei suoni. Senza dimenticare i suoi nessi con la visualità, che per un maître du regard si chiama, nel caso, pittura. «Ma sì, ogni tonalità musicale, ogni nota ha una sua tinta precisa. Sicché non posso negarlo, tra i due vizi cè, eccome, una parentela».
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